Sguardi all'orizzonte



«Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro»

Entrate nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano posto. Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: «Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto»” Mc 16 5-7.

Grande fu lo stupore di quelle donne che erano salite al sepolcro di buon mattino per andare a ungere con oli aromatici il corpo di Gesù, com’era consuetudine tra i Giudei. Non solo: “alzando lo sguardo, osservarono che la pietra era già stata fatta rotolare, benché fosse molto grande”(ibi), ma, ciò che non prevedevano, era stata rimossa l’altra “grande pietra” che gravava sui loro cuori: la realtà della morte dolorosa è ignomimiosa del Maestro. Infatti il sepolcro era ormai vuoto: "videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano posto. Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: “Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto”» (ibi).

Il “passaggio” dal grande dolore per la passione e morte del Signore alla grande gioia per la sua Resurrezione ebbe - per loro come per gli apostoli - i suoi tempi umani. Gesù li aiuterà a entrare un po’ per volta nella luce e nel calore di questo ”giorno che ha fatto il Signore”, che è sorto dalla Sua vittoria sul peccato e sulla morte. Per questo “Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio” (Atti 1,3)
Quei quaranta giorni prima dell’Ascensione del Signore al Cielo, fu per i discepoli un tempo di intensa maturazione, di progressiva crescita nella scoperta dell’orizzonte ampio e profondo che la Resurrezione di Gesù veniva ad aprire alla vita loro e di tutti gli uomini.

Fu per loro un passaggio non solo dal dolore per la passione e morte di Gesù e dal disorientamento che ne provenienza alla gioia di rivedere Gesù vivo, ma da un'idea che si erano fatti sulla Sua missone a una nuova e profonda comprensione di a che cosa li chiamassea quel “seguimi” che Gesù aveva rivolto a ciascuno di loro, sulle rive del mare di Galilea. 

Qualcosa di questo cambiamento di prospettive ci viene mostrato dall’incontro di Gesù con i discepoli che, in quello stesso giorno, pur avendo avuto notizia del sepolcro vuoto, si allontanavano addolorati e delusi da Gerusalemme. “... erano in cammino per un villaggio di nome Emmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Cleopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso” Mc 24, 13-20.

Nell’apertura di cuore dei discepoli di Emmaus leggiamo la tristezza per un’aspettativa con la quale seguivano Cristo che era andata dolorosamente delusa. "Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute" Mc 24, 21
Anche poco prima dell'Ascensione, Luca riprende negli Atti una loro richiesta in proposito: "Quelli, dunque, che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?»" Atti 1,6.

Nella storia di Israele le aspettative che accompagnavano l’attesa della misteriosa figura del “messia” e la suo opera riguardavano prevalentemente la liberazione del popolo di Israele dall’assoggettamento ai popoli stranieri per una ricostituzione del “regno di Israele”. La realtà della morte del Messia e della succesiva e inattesa Risurrezione veniva a spalancare il vero orizzonte verso il quale Gesù voleva condurre loro e quanti lo avrebbero seguito: la liberazione dal peccato e la nascita a una “nuova vita”, il cui destino – già in questo mondo e pienamente alla fine dei tempi - non era un regno terreno, ma la partecipazione alla stessa vita di Dio. Fu questa profonda maturazione che li portò, guidati dall’azione dello Spirito, a proclamare il Vangelo a tutti gli uomini per chiamarli alla salvezza in Cristo. Per questo molti di loro, come il loro maestro, diedero persino la loro vita.

Anchea a noi, che ben conosciamo il vero significato della Redenzione operata da Cristo, le aspettative umane dei discepoli e la loro delusione fanno pensare a quelle aspettative umane che con frequenza possiamo nutrire nella nostra fedeltà a Cristo e nel ministero che realizziamo al suo servizio.
Ciò che per loro era l'attesa di un nuovo “ regno d’Israele” può essere talora per noi l'attesa di un cammino senza ostacoli e prove guidato dal successo umano, dell’affermazione di noi stessi e dall’approvazione sociale che il nostro operato come ministri della Chiesa debba raccogliere.

In contrasto con le attese dei discepoli, le vicende della passione e morte di Gesù furono chiaramente perdenti: Egli - mentre sparge le ricchezze della buona novella, dei miracoli, delle guarigioni, ecc. - trova tuttavia difficoltà e incomprensioni, opposizioni e accuse fino a dover subire la violenza della passione e della morte in croce. Ma tutto questo non fu per Gesù il fallimento della missione, bensì il passaggio attraverso il quale si compì, nel suo sacrificio, il disegno della salvezza dal peccato e dell'aprirsi delle le porte del Cielo.

Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” Lc 24, 25-27. Se talora nel portare avanti il nostro ministero di servizio alla Chiesa ci ritroviamo delusi e disorientati rispetto alle nostre aspettative umane nell'incontrare contrarietà, incomprensioni, opposizioni, ecc. lasciamoci risvegliare da questo affettuoso richiamo di Gesù per riconoscere, invece in queste realtà di fatiche, incomprensioni e sofferenze, il cammino che, attraverso la partecipazione alla croce di Cristo, ci conduce verso la pienezza della vita in Cristo, alla sua Risurrezione.

Saremo aiutati a cercare con maggiore chiarezza “il Regno di Dio e la sua giustizia” non perché ci siano risparmiati fatiche e sofferenze umane, ma perché veniamo liberati dai vincoli del nostro io per vivere il nostro servizio ministeriale guidati solo dall’amore.

“Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero” Lc 24, 28-31. Nella celebrazione dell’Eucaristia si rivelò definitivamente alle loro menti il mistero della Croce e nei loro cuori si riversò tutta la gioia e la forza della fede. I loro occhi poterono riconoscere Gesù vivo e risorto, vincitore della morte e del peccato. ”Cristo vive. Gesù è l'Emmanuele, Dio con noi. La sua Risurrezione ci rivela che Dio non abbandona mai i suoi. (…) In modo speciale Cristo continua a essere presente fra di noi nel dono quotidiano dell'Eucaristia. Per questo la Messa è centro e radice della vita cristiana. (…) La presenza di Gesù vivente nell'Ostia è la garanzia, la radice e il culmine della sua presenza nel mondoJosemaría Escrivá È Gesù che passa' n.102 . Ogni giorno, nella celebrazione piena di fede del Sacrificio eucaristico, si aprono i nostri occhi: possiamo riconoscerlo, vivo e risorto. e ci si rivela l’incedere del mistero della Redenzione in mezzo alle vicende della nostra vita e della vita del mondo.
Se pensiamo che le cose non cambieranno, ricordiamo che Gesù Cristo ha trionfato sul peccato e sulla morte ed è ricolmo di potenza. (…). Cristo risorto e glorioso è la sorgente profonda della nostra speranza, e non ci mancherà il suo aiuto per compiere la missione che Egli ci affida (…)
La fede significa anche credere in Lui, credere che veramente ci ama, che è vivo, che è capace di intervenire misteriosamente, che non ci abbandona, che trae il bene dal male con la sua potenza e con la sua infinita creatività. Significa credere che Egli avanza vittorioso nella storia insieme con «quelli che stanno con lui … i chiamati, gli eletti, i fedeli»
” (Ap 17,14) (Papa Francesco – Evangelii Gaudium. n.275-278).

Siamo chiamati a innovare il cuore nella luce e nella forza della Risurrezione per abbandonare aspirazioni umane che possano pesare sul nostro ministero e che si rivelano inadeguate al disegno di Dio ed abbracciare ogni giorno, con la forza dell’Eucaristia, l’orizzonte ampio e profondo di cercare la pienezza della vita nuova in Cristo, per annunciarla e portarla a tutti gli uomini.
«Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni» (Lc 24,48). 

  Marzo 2024        



La conversione 
dei figli di Dio

(da un'Omelia di S. Josemaria Escrivà)
 
Siamo entrati nel tempo di Quaresima, tempo di penitenza, di purificazione, di conversione. Non è un compito facile. Il cristianesimo non è un cammino comodo: non basta "stare" nella Chiesa e far passare gli anni. Nella nostra vita, vita di cristiani, la prima conversione — quel momento irripetibile, indimenticabile, in cui si vede con tanta chiarezza tutto ciò che il Signore ci chiede — è importante; però ancora più importanti e difficili sono le conversioni successive. Per agevolare l'opera della grazia divina che si manifesta in esse, occorre conservare un animo giovane, invocare il Signore, ascoltarlo, scoprire ciò che in noi non va, chiedere perdono.
Invocabit me et ego exaudiam eum, se mi invocherete vi ascolterò, dice il Signore(Sal 90, 15 [introito della Messa]). Considerate quanto è meravigliosa la sollecitudine di Dio verso di noi; è sempre disposto ad ascoltarci, sempre attento alla parola dell'uomo. In ogni tempo — ma ora in modo speciale, perché il nostro cuore è ben disposto, deciso a purificarsi — Egli ci ascolta e non sarà sordo alle richieste di un cuore contrito e umiliato (Sal 50, 19).

Il Signore ci ascolta per intervenire, per entrare nella nostra vita, liberarci dal male, colmarci di bene: Eripiam eum et glorificabo eum (Sal 90, 15 [introito della Messa]), ci libererà e ci glorificherà. Ecco la speranza della gloria: ritroviamo qui, come già in altre occasioni, l'inizio di quell'intimo movimento che è la vita spirituale. La speranza di questa glorificazione accresce la nostra fede e stimola la nostra carità. In tal modo le tre virtù teologali, virtù divine che ci fanno simili a Dio nostro Padre, diventano operanti.
Quale miglior modo di cominciare la Quaresima? Il rinnovamento della fede, della speranza e della carità è la fonte dello spirito di penitenza, che è desiderio di purificazione. La Quaresima non è solo un'occasione per intensificare le nostre pratiche esteriori di mortificazione: se pensassimo che è solo questo, ci sfuggirebbe il suo significato più profondo per la vita cristiana, perché quegli atti esterni — vi ripeto — sono frutto della fede, della speranza, dell'amore.

Qui habitat in adiutorio Altissimi, in protectione Dei coeli commorabitur (Sal 90, 1), abitare sotto la protezione di Dio, vivere con Dio: in questo consiste la rischiosa sicurezza del cristiano. Bisogna persuadersi che Dio ci ascolta, che è accanto a noi: e il nostro cuore si riempirà di pace. Ma vivere con Dio è indubbiamente un rischio, perché il Signore non si accontenta di condividere: chiede tutto. E avvicinarsi un po' di più a Lui vuol dire essere disposti a una nuova conversione, a una nuova rettificazione, ad ascoltare più attentamente le sue ispirazioni, i santi desideri che egli fa sbocciare nella nostra anima, e a metterli in pratica.

Certo, dai tempi della nostra prima decisione cosciente di vivere integramente la dottrina di Cristo, abbiamo fatto molti passi sulla strada della fedeltà alla sua Parola. Eppure, non è vero che restano ancora tante cose da fare? Non è vero che resta, soprattutto, tanta superbia? C'è indubbiamente bisogno di un nuovo cambiamento, di una lealtà più piena, di un'umiltà più profonda, affinché diminuisca il nostro egoismo e Cristo cresca in noi; infatti, illum oportet crescere, me autem minui (Gv 3, 30), bisogna che Egli cresca e che io diminuisca.

Non si può rimanere inerti. È necessario avanzare verso la meta indicata da san Paolo: Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (Gal 2, 20). L'ambizione è grande e nobile: è l'identificazione con Cristo, la santità. D'altronde non c'è altra strada se si desidera essere coerenti con la vita divina che Dio stesso, mediante il battesimo, ha fatto nascere nelle nostre anime. Andare avanti significa progredire in santità; si retrocede, invece, se si rinuncia allo sviluppo della vita cristiana. Il fuoco dell'amore di Dio ha bisogno di essere alimentato, di crescere ogni giorno, di gettare profonde radici nell'anima; e il fuoco si mantiene vivo a condizione di bruciare cose sempre nuove. Se non avvampa, rischia di estinguersi.
Ricordate le parole di Sant'Agostino: Se dici basta, sei perduto. Guarda sempre avanti, cammina sempre, avanza sempre. Non restare allo stesso posto, non retrocedere, non sbagliare strada (SANT’AGOSTINO, Sermo 169, 15 [PL 38, 926]).

La Quaresima ci pone davanti a degli interrogativi fondamentali: cresce la mia fedeltà a Cristo, il mio desiderio di santità? Cresce la generosità apostolica nella mia vita di ogni giorno, nel mio lavoro ordinario, fra i miei colleghi? Ognuno risponda silenziosamente, in cuor suo, a queste domande e scoprirà che è necessaria una nuova trasformazione perché Cristo viva in noi, perché la sua immagine si rifletta limpidamente nella nostra condotta.

Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua (Lc 9, 23). È Cristo che ce lo ripete di nuovo, sottovoce, intimamente: la Croce ogni giorno. Non è solo — scrive san Gerolamo — in tempo di persecuzione e sotto la costrizione del martirio che dobbiamo rinnegare noi stessi quali eravamo in passato, ma in ogni attimo della nostra vita, nelle opere, nei pensieri e nelle parole; e dobbiamo far vedere che siamo degli esseri effettivamente rinati in Cristo (SAN GEROLAMO, Ep 121, 3 [PL 22, 1013]).
Queste considerazioni non sono, in realtà, altro che l'eco di quelle dell'Apostolo: Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce; il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate ciò che è gradito al Signore (Ef 5, 8-10).

La conversione è cosa di un istante; la santificazione è opera di tutta la vita. Il seme divino della carità, che Dio ha posto nelle nostre anime, aspira a crescere, a manifestarsi in opere e a produrre frutti che in ogni momento corrispondano ai desideri del Signore. È indispensabile quindi essere disposti a ricominciare, a ritrovare, nelle nuove situazioni della nostra vita, la luce e l'impulso della prima conversione. E questa è la ragione per cui dobbiamo prepararci con un approfondito esame di coscienza, chiedendo aiuto al Signore, per poterlo conoscere meglio e per conoscere meglio noi stessi. Se vogliamo convertirci di nuovo, questa è l'unica strada.
Exhortamur ne in vacuum gratiam Dei recipiatis (2 Cor 6, 1 [epistola della Messa]), vi esortiamo a non ricevere invano la grazia di Dio. La grazia divina potrà colmare la nostra anima in questa Quaresima, purché non chiudiamo le porte del cuore. Dobbiamo avere buone disposizioni, il desiderio di trasformarci veramente, di non giocare con la grazia di Dio.

Non mi piace parlare di timore, perché ciò che muove il cristiano è l'amore di Dio che è stato manifestato in Cristo e che ci insegna ad amare tutti gli uomini e l'intera creazione; dobbiamo però parlare di responsabilità, di serietà. Non vi fate illusioni — ci avverte l'Apostolo — , non ci si può prendere gioco di Dio (Gal 6, 7).
Bisogna decidersi. Non si può vivere con quelle due candele che, secondo il detto popolare, ogni uomo tiene accese: una a san Michele e una al demonio. Bisogna spegnere la candela del demonio. Dobbiamo consumare la nostra vita facendola ardere tutta intera al servizio di Dio. Se il nostro desiderio di santità è sincero e docilmente ci mettiamo nelle mani di Dio, tutto andrà bene. Perché Dio è sempre disposto a darci la sua grazia e, specialmente in questo tempo, la grazia per una nuova conversione, per un miglioramento della nostra vita di cristiani.

Non possiamo considerare la Quaresima come un periodo qualsiasi, una ripetizione ciclica dell'anno liturgico. È un momento unico; è un aiuto divino che bisogna accogliere. Gesù passa accanto a noi e attende da noi — oggi, ora — un rinnovamento profondo.
Ecce nunc tempus accettabile, ecce nunc dies salutis (2 Cor 6, 2 [epistola della Messa]): è il tempo propizio, l'occasione della salvezza. Si sente di nuovo il richiamo del Buon Pastore, la sua voce affettuosa: Ego vocavi te nomine tuo (Is 43, 1). Ci chiama per nome, a uno a uno, con l'appellativo famigliare con cui ci chiamano le persone che ci amano. La tenerezza di Gesù è inesprimibile.

Considerate con me quanto è meraviglioso l'amore di Dio: il Signore ci viene incontro, ci aspetta, attende lungo la strada in modo che non possiamo fare a meno di vederlo. E ci chiama personalmente, parlandoci delle nostre cose, che sono anche le sue: muove la nostra coscienza al pentimento, l'apre alla generosità e imprime nelle nostre anime il desiderio di essere fedeli e poterci chiamare suoi discepoli. Ci basta percepire queste intime parole della grazia, che suonano come un rimprovero sempre affettuoso, per renderci conto che Egli non ci ha dimenticati in tutto il tempo in cui noi, per nostra colpa, non ci siamo accorti di Lui. Cristo ci ama con l'amore infinito del suo Cuore divino.
Guardate come insiste: Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso (2 Cor 6, 2 [epistola della Messa]). Ti promette la gloria, il suo amore; te li dà al momento opportuno e ti chiama. E tu, che cosa dai al Signore? Come risponderai? Come risponderò io stesso all'amore di Gesù che passa accanto a noi?

Ecce nunc dies salutis, ecco, oggi è il giorno della salvezza. L'appello del Buon Pastore giunge sino a noi: Ego vocavi te nomine tuo, ho chiamato te, per nome. Bisogna rispondere — amore con amor si paga — dicendo: Ecce ego, quia vocasti me (1 Sam 3, 5), mi hai chiamato, eccomi: sono deciso a non fare che il tempo di Quaresima passi come l'acqua sui sassi, senza lasciare traccia; mi lascerò penetrare, trasformare; mi convertirò, mi rivolgerò di nuovo al Signore, amandolo come Egli vuole essere amato.
Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente (Mt 22, 37). Che cosa resta del tuo cuore — commenta sant'Agostino — perché tu possa amare te stesso? Che cosa resta della tua anima e della tua mente? "Ex toto, Egli dice, con tutto". Totum exigit te, qui fecit te (SANT’AGOSTINO, Sermo 34, 4, 7 [PL 38, 212]), Colui che ti fece, ti vuole tutto. (continua per il testo integrale)

   Febbraio 2024




Le virtù umane, vie di configurazione con l’umanità di Cristo

Nella liturgia del Battesimo del Signore abbiamo pregato: O Padre, il tuo unico Figlio si è manifestato nella nostra carne mortale, concedi a noi, che lo abbiamo conosciuto come vero uomo, di essere interiormente rinnovati a sua immagine. (Orazione colletta)

Nel nostro cammino di cristiani, l’azione dello Spirito Santo ci guida alla conformazione con l’Umanità di Cristo che diviene il luogo, il mezzo della nostra salvezza e della nostra santificazione, per entrare, in Lui, nella comunione filiale con Dio.

Rivestitevi … del Signore Gesù Cristo” (Rom 13,14). La vita cristiana non è un mero osservare delle leggi, rispettare delle tradizioni, seguire dei comportamenti morali: è un incontro personale con Cristo, per essere trasformati secondo la Sua vita. Il Battesimo ci “innesta “ nella vita di Cristo e ci chiama a corrispondere all’azione dello Spirito “finché non sia formato Cristo in voi", dice San Paolo (Gal 4,19): cioè crescano in noi le sue disposizioni, i suoi sentimenti, i suoi desideri, le sue virtù. Se ciò vale per ogni cristiano: ancor più vale per noi sacerdoti, consacrati dall’Ordine sacro per esercitare il sacerdozio di Cristo ed essere 
tra gli uomini la “continuazione della vita e dell'azione dello stesso Cristo” (Pastores dabo vobis, n. 18). Un motivo in più - e una grazia specifica - per aprirci all’azione dello Spirito che lavora a questa conformazione.

Non possiamo, perciò, essere gli uomini della preghiera, della intensa attività pastorale, della proclamazione eloquente della parola di Dio e lasciare poi che nella nostra vita quotidiana si manifestino viltà, egoismi, intemperanze, disordine, bruschezza dei modi, cedimenti alla pigrizia, alla sensualità, alla mormorazione, alle gelosie e invidie. “Non crediamo che serva a qualcosa la nostra apparente virtù di santi, - ci ricorda San Josemaria Escrivà - se non va unita alle comuni virtù di cristiani. - Sarebbe come adornare di splendidi gioielli la biancheria intima” (Cammino 409).

Talvolta potremmo sottovalutare o sminuire il progresso nelle virtù umane nella nostra vita sacerdotale: “Una certa mentalità laicista e altri modi di pensare che potremmo chiamare 'pietisti' coincidono nel non considerare il cristiano come un uomo completo. Per i primi, le esigenze del Vangelo soffocherebbero le qualità umane; per gli altri, la natura decaduta metterebbe in pericolo la purezza della fede. Il risultato è lo stesso: si smarrisce il senso profondo dell'incarnazione di Cristo, si ignora che il Verbo si fece carne, uomo, e venne ad abitare in mezzo a noi (Gv 1, 14)” (S. Josemaría Escrivá, Amici di Dio, n.74). Può accadere che rinunciamo a cercarle perché sarebbe un mettere in secondo piano l’azione della grazia. Eppure sappiamo che la grazia non soffoca la natura, ma la guarisce e la porta a perfezione in Dio: essa, dunque, promuove l’umanità del cristiano nelle sue potenzialità.

“Se accettiamo la responsabilità di essere suoi figli, vedremo che Dio ci vuole molto umani. La testa deve arrivare al cielo, ma i piedi devono poggiare saldamente per terra. Il prezzo per vivere da cristiani non è la rinuncia a essere uomini o la rinuncia allo sforzo per acquistare quelle virtù che alcuni posseggono anche senza conoscere Cristo. Il prezzo di ogni cristiano è il Sangue redentore di Gesù nostro Signore che ci vuole — ripeto — molto umani e molto divini, costanti nell'impegno quotidiano di imitare Lui, perfectus Deus, perfectus homo”. (ibidem, n.75)

La santificazione sacerdotale deve dunque investire la nostra umanità che non è uno strumento inerte, ma trasmette la grazia anche nella misura in cui si sviluppa ed si esprime secondo l’umanità di Cristo. Grazie a questa consacrazione operata dallo Spirito nell'effusione sacramentale dell'Ordine, la vita spirituale del sacerdote viene improntata, plasmata, connotata da quegli atteggiamenti e comportamenti che sono propri di Gesù Cristo Capo e Pastore della Chiesa e che si compendiano nella sua carità pastorale” (S. Giovanni Paolo II, Pastore dabo vobis, n.21). Infatti - aggiunge - nell'esercizio del ministero è profondamente coinvolta la persona cosciente, libera e responsabile del sacerdote. Il legame con Gesù Cristo, che la consacrazione e configurazione del sacramento dell'Ordine assicurano, tende, per sua natura, a farsi il più ampio e il più profondo possibile, investendo la mente, i sentimenti, la vita, ossia una serie di « disposizioni » morali e spirituali corrispondenti ai gesti ministeriali che il sacerdote pone" (ibidem, n. 25).

In tal modo, attraverso i compiti e i gesti del ministero sacerdotale, cureremo la crescita secondo “gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (Fil, 2 ,5). La virtù della pietà filiale che fa cercare continuamente l’unione con Dio Padre, come Gesù che, mentre svolgeva il suo incessante ministero, si raccoglieva nella preghiera al Padre e si dirigeva con frequenza a Lui per ringraziarlo – come prima della risurrezione di Lazzaro cfr. Gv 11,41) - o per benedirlo “perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,25).  La virtù della prudenza: visione di fede e capacità di discernimento della carità, come Gesù che decide di farsi carico e dare il cibo alle folle che da ore lo seguivano o che, prima di rispondere ai farisei, chiede loro quale autorità riconoscessero nel Battista. La virtù della giustizia, imparando da Gesù: a dare “ a Cesare , quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”, offrire a ogni persona che ci si avvicina ciò che le è dovuto davanti a Dio e agli uomini: rispetto, accoglienza, ascolto, stima, aiuto; ad essere giusti nei giudizi che dobbiamo dare a chi ci chiede luci.

La virtù della fortezza, imparando dalla fortezza di Gesù nella passione, a maturare la capacità di reggere le responsabilità del ministero, sempre appoggiati sull’azione della Provvidenza, in situazioni pastorali talvolta molto impegnative, senza facili ripiegamenti e scoraggiamenti o timori di fronte agli ostacoli; ad essere pazienti nel perdurare delle difficoltà, senza lasciarsi andare; ad essere audaci e coraggiosi: “Convinciti: quando si lavora per il Signore, non ci sono difficoltà che non si possano superare, né scoraggiamenti che inducano ad abbandonare l’impresa, né insuccessi meritevoli di questo nome, per quanto infruttuosi appaiano i risultati” (S. Josemaría Escrivá, Solco, n.110). La virtù della temperanza: una disposizione del nostro animo che possa renderci docili e pronti all’azione della grazia; che nella disciplina dei sentimenti, emozioni, stati d’animo, permetta di saper ascoltare, di essere attenti a comprendere in profondità le esigenze delle anime, e avere fermezza per prendere le opportune decisioni per il bene delle anime. “La sua disciplina interiore ed esteriore – ci dice Papa Francesco - consente il possesso di sé e apre spazio per l’accoglienza e la guida degli altri” (Discorso, 27 febbraio 2014).

Sincerità e lealtà.Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno” (Mt 5,37): essere pastori affidabili che non tradiscano la fiducia, la parola data, nascondendo dietro “gli impegni” la poca voglia, la comodità, l’interesse; che rifuggano dalla doppiezza, delle illazioni, delle mormorazioni. Umiltà e longanimità per non insuperbire a causa del prestigio che il ruolo conferisce; per non presumere, ma saper ascoltare e imparare; per non essere suscettibili e permalosi. E concepire invece progetti grandi per la fede: saper sognare, saper promuovere nella nostra gente mete elevate di corrispondenza alla grazia: conversioni, ambizioni di santità, vocazioni speciali al servizio di Dio e della Chiesa, ecc. Laboriosità come Gesù che “cominciò a fare e a insegnare” (Atti 1,1). Una vita laboriosa – senza affanni o strattoni - ma continuamente e diligentemente impegnata nel servizio alle anime e alla Chiesa: ordine, orari, approfittare bene del tempo senza rimandare le cose e seguendo le priorità giuste.

Nella crescita dell’umanità di Cristo nella vita del prete deve maturare in particolare una carità incarnata in quelle virtù che hanno una maggiore rilevanza per il ministero di pastore e di padre che gli è affidato. Egli, infatti, è chiamato a “mettersi in cammino con i propri fedeli (...) condividendone gioie e speranze, difficoltà e sofferenze, come fratelli e amici, ma ancora di più come padri, che sono capaci di ascoltare, comprendere, aiutare, orientare. Il camminare insieme richiede amore, e il nostro è un servizio di amore” (Papa Francesco, Discorso, 19-IX-2013).

Forse talora sembrerà difficile poter cambiare aspetti del nostro modo di essere, eppure il Signore continua a dirci: “seguimi” e lo Spirito Santo è impegnato a “ formare Cristo in noi”. Con fede e disponibilità, un po’ alla volta avanzeremo, pur attraverso errori e arretramenti di cui chiederemo perdono per ricominciare, ma mirando sempre a “rivestirci del Signore Gesù Cristo”. Lo faremo percorrendo le vie della grazia che ci mettono in contatto con l'umanità di Cristo: il ministero della Parola, col desiderio che essa ci muova a continue conversioni; l’Eucaristia ricevuta come alimento che ci trasformi; la meditazione sull’umanità di Cristo che ci porti a desiderare sempre più la conformazione a Lui. E l’impegno della lotta nelle piccole cose, nei piccoli passi di ogni giorno che, a poco a poco, ci avvicineranno a Lui. A Maria e Giuseppe, che collaborarono alla crescita della umanità di Cristo, chiederemo che veglino anche sulla crescita dell’umanità di Cristo in noi.

 Gennaio 2024       





Seguire Cristo nei cammini divini della terra

La gioia del Vangelo scaturisce dall’incontro con Gesù. È quando incontriamo il Signore che veniamo inondati da quell’amore di cui Lui solo è capace. Allora, «quando permettiamo a Dio di condurci al di là di noi stessi», la vita cambia e «raggiungiamo il nostro essere più vero. Lì sta la sorgente dell’azione evangelizzatrice» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 8) “ (Papa Francesco - Discorso 30-XI-2019).

Nella grazia del Natale, l’incontro con Gesù trova, nella tradizione del presepe, una via preferenziale, di grande fecondità. “Il mirabile segno del presepe, così caro al popolo cristiano, suscita sempre stupore e meraviglia. (…). Il presepe, infatti, è come un Vangelo vivo, che trabocca dalle pagine della Sacra Scrittura" (Papa Francesco – Lettera ap. Admirabile signum).
Attraverso il presepe siamo attratti a entrare in quella grotta di Betlemme, a contemplare l’umanità di Cristo che vede la luce nella mangiatoia, ad adorare attraverso di essa il Verbo di Dio venuto in mezzo agli uomini.

La celebrazione del mistero del Natale è sempre, in modo attuale, una nuova chiamata ad accogliere più in profondità Gesù nella nostra vita affinché Egli possa crescere in essa – “Lui deve crescere; io, invece, diminuire”(Gv 3,30) -, e così redimerla e innalzarla alla partecipazione della vita di Dio.

Il Verbo di Dio viene a vivere la condizione umana nelle espressioni più comuni a milioni di uomini e donne di questo mondo: tutti sono ugualmente interpellati dalla sua vita per seguirlo in un cammino di pienezza cristiana qui sulla terra. Papa Francesco coglie un riferimento all’universalità della chiamata alla santità nella consuetudine di collocare nel presepe non solo i personaggi citati dal racconto evangelico, ma anche tanti altri che rappresentano gli uomini e le donne di ogni tempo che Gesù viene a salvare e ai quali viene ad aprire cammini di salvezza e di autentica santificazione.

Spesso i bambini–ma anche gli adulti!–amano aggiungere al presepe altre statuine che sembrano non avere alcuna relazione con i racconti evangelici. Eppure, questa immaginazione intende esprimere che in questo nuovo mondo inaugurato da Gesù c’è spazio per tutto ciò che è umano e per ogni creatura. Dal pastore al fabbro, dal fornaio ai musicisti, dalle donne che portano le brocche d’acqua ai bambini che giocano …: tutto ciò rappresenta la santità quotidiana, la gioia di fare in modo straordinario le cose di tutti i giorni, quando Gesù condivide con noi la sua vita divina” (Lettera ap. Admirabile signum).

È importante farsi portatori di questa luce sul significato profondo dell’umanità di Cristo e della sua esistenza su questa terra. Egli ha preso la nostra carne umana perché tutti gli uomini che vivono nelle condizioni più comuni nel mondo, potessero condividere la sua vita divina. “Gesù, che cresce e vive come uno di noi, ci rivela che l'esistenza umana, con le sue situazioni più semplici e comuni, ha un senso divino. (…) ci deve pur sempre riempire di ammirazione la considerazione di quei trent'anni di oscurità che costituiscono la maggior parte del tempo che Gesù ha trascorso tra gli uomini suoi fratelli. Anni oscuri, ma per noi luminosi come la luce del sole. Sono, anzi, lo splendore che illumina i nostri giorni, che dà ad essi il loro autentico significato” (S. Josemaría Escrivá - È Gesù che passa, n.14)

Il Verbo di Dio nacque e crebbe in una famiglia, imparò ed esercitò un mestiere, sviluppò le relazioni di convivenza e di amicizia di un comune abitante di un villaggio della Galilea: in tal modo viene ad aprire a tutti – come soleva ripetere san Josemaría - i cammini divini della terra, cioè a trasformare le realtà del mondo, i percorsi di vita che in esso si sviluppano, in strade che conducono a Dio, in vie di unione con Lui. Innestati, attraverso il Battesimo, nella vita Cristo, ogni uomo e ogni donna possono scoprire e seguire, nello svolgimento dei compiti propri della loro vita ordinaria, autentici cammini di santità.

Ma perché questo avvenga, dobbiamo deciderci a camminare quotidianamente nello spirito di Cristo, portati dalla sua grazia, guidati dalla sua Parola: “Mentre contempliamo la scena del Natale, siamo invitati a metterci spiritualmente in cammino, attratti dall’umiltà di Colui che si è fatto uomo per incontrare ogni uomo (Papa Francesco – Lettera ap. Admirabile signum)

L’incontro con Gesù, che possiamo realizzare quotidianamente attraverso il Vangelo, non è solo motivato dal desiderio di una devota conoscenza dei suoi insegnamenti: è, prima di tutto, un incontro con la sua umanità che ci nutre e ci santifica. È necessario “meditare le scene del Nuovo Testamento per addentrarci nel senso divino dell'esistenza terrena di Gesù” (S. Josemaría Escrivá - È Gesù che passa, n.14): se lo contempliamo con amore, con disponibilità a imparare e a lasciarci coinvolgere, i suoi atteggiamenti, i gesti concreti della sua vita e i sentimenti che lo animano, allora a poco a poco ne verremo trasformati: la nostra vita quotidiana diventerà sempre più una vita di figli di Dio, seguendo le Sue tracce, i nostri cammini terreni diventeranno cammini divini. Impareremo a guardare il mondo - il nostro mondo, quello in cui ciascuno vive - con lo sguardo di Cristo: uno sguardo che vi riconosce l’impronta divina della creazione e che desidera salvarlo dal disordine e dal peccato per riportarlo al Padre.
  
Gesù che viene a nascere e a vivere in questo mondo ci rivela il significato divino della creazione: le creature non esistono perché gli uomini vi cerchino sé stessi, ma perché riconoscano in esse la manifestazione dell’amore del Padre, della sua bontà, della sua sapienza, e le molteplici e variegate chiamate ad amare e a servire Dio e tutti gli uomini. La contemplazione della vita umana di Gesù ci trasforma così in luce del mondo, in sale della terra: luce che mostra le vie dell’incontro con Dio – della santità - nel bel mezzo delle attività quotidiane e sale che rivela agli uomini nostri fratelli il sapore divino dell’esistenza terrena che in Cristo diventa luogo di unione con Dio. 

Dicembre 2023   



La purezza delle intenzioni

Chiamati a spendere la nostra vita al servizio del ministero sacerdotale di Cristo, del quale siamo stati resi partecipi, siamo pur sempre creature fragili per le quali si dà la possibilità che, nel dedicarci a servire, si insinui, tuttavia, prenda spazio nel nostro cuore la ricerca di noi stessi: l’intenzione che muove le nostre scelte e i nostri comportamenti può essere meno retta lasciandosi deviare dalle inclinazioni disordinate che possono sempre sorgere nel nostro cuore.
Al termine dell’anno liturgico, la Chiesa ci muove a centrare la nostra attenzione e il desiderio del nostro cuore nel Regno di Cristo. È un momento propizio per considerare, nell’attesa della venuta gloriosa di Cristo, la fragilità di questo mondo e il vero valore delle nostre scelte: tempo per purificare e dirigere più pienamente le intenzioni del nostro cuore per la effettiva crescita, in noi e negli altri, del Regno di Dio.

Gesù ci avverte: "State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli" (Mt 6,1). Il nostro ministero si spende quotidianamente nella preghiera, nell’amministrazione dei sacramenti, nella proclamazione del Vangelo, nell’accogliere i fedeli e guidarli sulle vie della santità. Ma il Signore ci chiede di considerare l’intenzione che ci muove mentre svolgiamo queste azioni “sante”, perché se l’azione in sé buona porta sempre il suo frutto positivo per chi la riceve, l’intenzione non retta allontanerebbe da Dio colui che la svolge. Nel promuovere le cose buone e sante del nostro ministero è necessario che il cuore si muova effettivamente e pienamente per amore di Dio e dei fratelli e che non nasconda – più o meno consapevolmente – altre intenzioni che in un modo o in un altro si dirigano alla ricerca di noi stessi.

Gesù predicava di guardarsi da coloro nei quali le parole e le azioni non corrispondono a quanto hanno nel cuore. "Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno …. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filatteri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d'onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati «rabbi» dalla gente" (Mt 23, 3-7).

La grazia del sacerdozio non ci esenta dal sentire il richiamo della nostra fragilità umana che si manifesta nella ricerca dell’affermazione di sé, della vanagloria, di piccoli tornaconti personali, ecc. E’ necessario, perciò, essere sinceri con se stessi per riconoscere la presenza di queste spinte disordinate e rettificare: non lasciare che la ricchezza del nostro cammino sacerdotale di servizio a Dio e alle anime venga sottilmente derubato da intenzioni che non corrispondono all’amore di Dio, alla sua gloria, le quali come delle piante parassite cercano di nutrire piuttosto il proprio io.

"State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. (…) E quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa" (Mt 6, 1-5).
S. Leone Magno sottolinea: “Quale ricompensa, se non quella della lode, … si va in cerca di una falsa rinomanza.” E aggiunge: “A chi ama Dio è già sufficiente sapere di essere gradito a colui che ama; e non brama ricompensa maggiore dell'amore stesso. L'anima pura e santa è talmente felice di essere ripiena di lui, che non desidera compiacersi in nessun altro oggetto al di fuori di lui. E' quanto mai vero, infatti, ciò che dice il Signore: «Là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Mt 6, 21). (…) dove si ripone la felicità del godimento, lì si concentra anche la preoccupazione del cuore” (Discorsi).

Il nostro desiderio di santità, di corrispondere appieno al dono e compito di essere strumenti della misericordia del Signore, senza pensare a noi stessi, ci richiede di vegliare su quanto abbiamo nel cuore. “Il Signore rispose a Samuele: «….. io non guardo ciò che guarda l'uomo. L'uomo guarda l'apparenza, il Signore guarda il cuore»” (1 Sam 16, 6 e ss). È necessario guardare al cuore, far maturare la purezza del cuore, affinché possa riempirsi sempre più solo dell’amore a Cristo, abbandonando gli attaccamenti e le ambizioni del nostro io.

L’intenzione del cuore è come il timone di una nave: se all’inizio del nostro cammino sacerdotale abbiamo espresso con chiarezza la piena e unica intenzione di servire Dio e la Chiesa, tuttavia, come avviene per una nave che, procedendo nel mare, sente l’urto delle correnti, delle onde e dei venti che la spingono in altre direzioni, così il nostro cuore subisce continuamente la spinta delle intenzioni disordinate che, se non corrette, ci porterebbero ad allontanarci dalla rotta giusta: la gloria di Dio e il servizio della Chiesa. Così come il timoniere della nave veglia e recupera ogni volta la giusta rotta, così noi, di fronte alle spinte di richiami disordinati del cuore, siamo chiamati a rettificare l’intenzione a purificarla.

La mondanità spirituale, che si nasconde dietro apparenze di religiosità e persino di amore alla Chiesa, consiste nel cercare, al posto della gloria del Signore, la gloria umana ed il benessere personale. È quello che il Signore rimproverava ai Farisei: «E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?» (Gv 5,44). Si tratta di un modo sottile di cercare «i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo» (Fil 2,21). Assume molte forme, a seconda del tipo di persona e della condizione nella quale si insinua. Dal momento che è legata alla ricerca dell’apparenza, non sempre si accompagna con peccati pubblici, e all’esterno tutto appare corretto. Ma se invadesse la Chiesa, «sarebbe infinitamente più disastrosa di qualunque altra mondanità semplicemente morale” (E.G. n. 93). Il cedimento alla mondanità offusca lentamente il riconoscimento e il desiderio del vero bene da cercare, mentre si fa strada la tiepidezza, la mediocrità, l’imborghesimento.

Quali i mezzi per purificare l’intenzione, per rettificarla? Esaminarsi con sincerità nella preghiera personale. Alcune tensioni che si manifestano talora dentro di noi e mettono alla prova – se non incrinano già -  l’”unità di vita”, rivelano qualche cedimento nella retta intenzione a favore di altre motivazioni che ci spingono. Sono tensioni tra ministero pastorale e vita di preghiera, tra l’impegno intenso nel ministero e l’esercizio della carità con gli altri: l’accoglienza, la premura per le necessità delle singole persone, la comprensione e la pazienza con l’uno e l’altra, la carità nello stesso rapporto con i propri familiari; e così pure tensioni tra la dedicazione al ministero e le manifestazioni della fraternità sacerdotale e l’obbedienza al Vescovo. Come pure il fare “differenze” fra gli aspetti del ministero più gradevoli e apprezzati, e quelli più fastidiosi o che non hanno visibilità.

Talora potremmo lasciarci condizionare dal consenso degli uomini nel momento di esporre gli insegnamenti del Vangelo. "… Innanzitutto,- ci suggerisce S. Josemaría Escrivà - ti deve importare che cosa dirà Dio; poi — molto in secondo luogo e a volte mai —, dovrai soppesare quello che potranno pensare gli altri. «Chi mi riconoscerà davanti agli uomini — dice il Signore — anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei Cieli. Chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei Cieli»”( Solco, n. 970).

Si tratta di saper vegliare quotidianamente: attualizzare ogni giorno l’intenzione di dirigere ogni nostra azione all’amore di Dio e al servizio degli altri,
 allontanando tutte quelle che ci allontanano da Lui. Far crescere e rendere sempre più efficace il desiderio che le nostre azioni diano a Dio “tutta” la gloria.

Novembre 2023  






Il cuore libero per servire Dio e gli altri

Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo. Buona cosa è il sale, ma se anche il sale perde il sapore, con che cosa verrà salato? Non serve né per la terra né per il concime e così lo buttano via” Lc 14,33-35.
Con molta franchezza Gesù chiarisce che per seguirlo è necessario rinunciare a tutti i propri averi: in tal modo, i suoi discepoli potranno essere sale della terra: che da sapore e che difende dalla corruzione. E aggiunge:”Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza” Lc 16,13. Non c’è via di mezzo: il cuore deve essere completamente libero per servire Dio e gli altri. Se non ci distacchiamo dai beni terreni, Dio non può entrare veramente nel nostro cuore.
È questo il senso e il grande valore della povertà cristiana che non è disprezzo delle cose create che Dio ha messo a disposizione degli uomini perché collaborassero con Lui nel governo e nello sviluppo del creato: è purezza di cuore che consente di orientare l’uso di tutti i beni della terra al servizio di Dio e degli uomini.

Gesù stesso ce ne dà l’esempio: la sua esistenza terrena, per trent’anni a Nazareth e poi nel suo ministero pubblico, si sviluppa nelle normali condizioni di vita nel mondo. Non manca di illuminarci sulla bontà dei beni terreni e sul fruirne nella semplicità dei figli di Dio: a Cana, fece sua la premura di Maria per la mancanza del vino e sottolineò il valore di quella festa di nozze trasformando l’acqua in un vino migliore di quello che era venuto a mancare. Vive con naturalezza un “apostolato della mensa” nel quale condivide e si attende il rispetto delle consuetudini dell’ospitalità ebraica, allorché fa notare a Simone il fariseo la sua trascuratezza nel modo di accoglierlo. La sua tunica destò l’apprezzamento dei soldati che lo crocifissero, perché “era tessuta tutta d’un pezzo”. Il suo stile di vita non era dunque quello di Giovanni il Battista che invece “portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano locuste e miele selvatico”(Mt 3,4).

Al contempo, tuttavia, Gesù chiedeva, a coloro che volevano seguirlo, il pieno distacco dalle ricchezze e la sobrietà nel possesso dei beni materiali, come pure la disponibilità a mettere la propria vita al servizio delle esigenze del Vangelo, anche se questo poteva comportare ristrettezze e fatiche: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo» (Mt 8,20). Egli stesso era nato durante un viaggio, in una stalla di Betlemme, e aveva patito, con Maria e Giuseppe, le ristrettezze della fuga in Egitto e della vita di un migrante. Visse poi un ministero intenso di predicazione e di guarigioni, di accoglienza delle folle che lo cercavano, senza soste. Viveva e insegnava l’abbandono fiducioso nella Provvidenza divina, liberi da preoccupazioni e inquietudini per le necessità terrene.

Con il suo esempio di vita e con le sue parole, Gesù insegna ai cristiani a saper vivere con il giusto apprezzamento dei beni terreni, ma con sobrietà e modestia, con libertà di cuore, guardandosi dall’attaccarvi il proprio cuore. Con Sant’Agostino possiamo dire: “con la temperanza di chi li usa, non con la sollecitudine di chi pone in essi il cuore”.
"Distaccati dai beni del mondo - ci ricorda S. Josemaria - Ama e pratica la povertà di spirito: contentati di quello che basta per trascorrere la vita con sobrietà e temperanza (…) La vera povertà non consiste nel non avere, ma nell'essere distaccato: nel rinunciare volontariamente al dominio sulle cose…" (Cammino n. 631 e n. 632).

Per noi sacerdoti, che condividiamo con la maggior parte dei cristiani una vita in mezzo al mondo, l’esercizio del distacco dai beni terreni porta con sé la lieta responsabilità di darne una viva e visibile testimonianza ai nostri fedeli. I presbiteri sono chiamati a ”giungere a quella libertà che riscatta da ogni disordinata preoccupazione e rende docili all'ascolto della voce di Dio nella vita di tutti i giorni. Da questa libertà e docilità nasce il discernimento spirituale, che consente di mettersi nel giusto rapporto con il mondo e le realtà terrene”. Essi devono “esaminare attentamente alla luce della fede tutto ciò che si trova sul loro cammino, in modo da sentirsi spinti a usare rettamente dei beni in conformità con la volontà di Dio, respingendo quanto possa nuocere alla loro missione” (Presbyterorum Ordinis n.17).

La prima manifestazione di questa libertà del cuore è quella di coltivare positivamente il distacco dalle cose e dai beni che abbiamo e usiamo, guardandosi dal lasciarsi sedurre dell’averne il “dominio “. Oltre ad alcuni beni personali, i beni legati alla parrocchia, quella canonica, quei mezzi di cui disponiamo per il lavoro pastorale, i regali … Può accadere che sottilmente cresca l’attenzione del cuore e la soddisfazione di avere questa cose: ciò che spesso può favorire la perdita di premura nel proprio rapporto personale con Dio, nella vita di fede: può farsi strada una visione umana delle cose e l’imborghesimento! Un sano distacco non produce il disprezzo delle cose, ma piuttosto l’opportuno mantenimento dei mezzi che usiamo affinché non si rovinino per la negligenza o per l’incuria.

L’uso del denaro che ci viene affidato per il ministero pastorale è dunque oculato: curare il decoro della chiesa e del culto, le necessità dei poveri, spenderlo per fini genuinamente pastorali: non lo si spreca per acquisti inutili o per poca avvedutezza nei consumi di energia o nella manutenzione delle cose. “Amministratori fedeli, non “ proprietari”. Ma non per questo negligenti e passivi: piuttosto, persone che mirano a una vita degna e che faciliti il servizio alla Chiesa, ma senza accumulare indebitamente, senza cedere ai capricci della comodità che la società del benessere, il consumismo, ci propongono. Impariamo così anche a non lamentarci quando ci venisse a mancare il necessario: quando si vengano a creare situazioni di ristrettezze di vita e ci vengono meno quei mezzi materiali di cui avremmo bisogno per portare avanti il nostro lavoro.

Un dimensione importante della libertà del cuore dai beni materiali è quella di imparare a mettere da parte ciò che è superfluo. “Cerca di vivere in modo tale da saperti privare, volontariamente, delle comodità e del benessere che giudicheresti sconvenienti nelle abitudini di un altro uomo di Dio. …” (S. Josemaria Escrivà, Cammino n. 938)

La libertà del cuore ci chiede infatti quel discernimento che aiuti a distinguere, nelle cose di uso personale, come negli strumenti di lavoro, ciò che è necessario e conveniente da ciò che è superfluo.
Ciò comporta che nelle spese che si fanno si possa distinguere la scelta della buona qualità delle cose dalle “proporzioni opportune” in relazione all’usa da farne e dal “numero”: evitiamo così di avere mezzi sproporzionati o di accumulare cose che in realtà non servono, mentre possono servire ad altri.
Possiamo chiederci se sono cresciute in noi abitudini di vita – nella cura di noi stessi, nelle relazioni con altri, nei viaggi, ecc. – che, per le spese che comportano, per il tempo che assorbono, ecc. possano rivelarsi “sconvenienti” rispetto al tono di vita sobrio che deve accompagnare la nostra vita sacerdotale. Se il ricevere regali è sempre un motivo di ringraziamento agli uomini e a Dio, tuttavia dobbiamo saper discernere se quegli oggetti si inseriscano nel nostro stile di vita oppure possano deformarlo, facendoci accumulare cose che invece ben potremmo offrire ad altri che ne hanno bisogno.
"Sacrificio: ecco in che cosa consiste, in gran parte, la povertà reale. Si tratta di saper prescindere dal superfluo, misurato non tanto con regole teoriche, quanto con l'ascolto della voce interiore che ci avverte che l'egoismo o la comodità ingiusta si stanno inoltrando nella nostra vita" (S. Josemaria Escrivá, Colloqui, n. 111).

Come per Gesù che, “da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” 2 Cor 8, 9, così per noi, curare il distacco, mentre tiene libero il cuore, ci permette di aiutare gli altri essendo più aperti e disponibili all’ascolto, all’accoglienza, alla comprensione dei loro problemi e, anche nel poter offrire, per le necessità materiali e spirituali degli altri, quelle risorse che per noi sono superflue.

Ottobre 2023  

 



Sale e luce: la santità personale

"Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa" Mt 5, 13-16.
Con queste parole Gesù faceva comprendere che il regno di Dio che stava per instaurare veniva a svilupparsi dentro alla vita delle persone e che si espandeva a partire dalla vita di coloro nei quali questo regno esisteva. Per questo parla di essere sale … di essere luce: portare il Regno di Dio non voleva dire essere dei meri propagatori di un messaggio religioso, ma trasmettere, attraverso la propria esistenza, nell’azione della grazia la realtà personale dell’amicizia con Dio, della vita di figli di Dio.

Lo sviluppo del cristianesimo avvenne proprio così. Ciò che mosse alla fede tanti giudei e pagani – come si intravede nel racconto degli Atti - fu la spinta che proveniva dalla vita personale di coloro che credevano al Vangelo: la vita generosa e santa di una madre o di un padre di famiglia, di un militare o di un commerciante, di un impiegato imperiale o di un contadino ....., così come dei ministri della Chiesa: diaconi, presbiteri e vescovi.

L’inizio di un nuovo anno di ministero pastorale può essere per ogni presbitero l’occasione propizia per valutare, prima di ogni opportuna scelta pastorale per il nuovo anno, l’importanza primaria di essere prima di tutto sale e luce con la sua vita personale. Decidersi, con più chiarezza e determinazione, non solo a disimpegnare in modo degno il proprio ministero sacerdotale, ma a cercare attraverso il ministero sacerdotale la pienezza della propria vita cristiana, la santità, per essere così sale che dà sapore, luce che illumina.

Sappiamo bene che la chiamata alla vita cristiana è chiamata alla santità e che la chiamata al sacerdozio non è mera realizzazione di alcuni compiti sacri, ma chiamata a sviluppare questa santità nel partecipare in un modo singolare al ministero sacerdotale di Cristo. Sappiamo anche, per esperienza, che potremmo dedicarci a un compimento anche diligente e illuminato del nostro ministero che però lasci in second’ordine – e perda di vista - la risposta a quelle chiamate che lo Spirito Santo ci rivolge attraverso lo svolgimento dei compiti del ministero: chiamate di conversione, di crescita, di trasformazione secondo i sentimenti di Cristo.

E' possibile scivolare nella tiepidezza, nell’imborghesimento: "Sei tiepido se fai pigramente e di malavoglia le cose che si riferiscono al Signore; se vai cercando con calcolo o con furbizia il modo di diminuire i tuoi doveri; se non pensi che a te stesso e alla tua comodità; se le tue conversazioni sono oziose e vane; se non aborrisci il peccato veniale; se agisci per motivi umani" (S. Josemaría 
Escrivá, Cammino n. 331).

Spesso Papa Francesco, nei suoi insegnamenti ai sacerdoti, muove a fuggire ogni atteggiamento che possa portarci all’imborghesimento e ci trasmette l’esigenza di un chiarimento nelle intenzioni, dell’atteggiamento di servizio, del distacco dalla ricerca del successo personale, ecc.: ci muove ad operare delle conversioni verso un modo più autentico di condurre la nostra vita sacerdotale.

Il cambiamento d’epoca che stiamo attraversando sottolinea ulteriormente ai presbiteri la necessità di una testimonianza di santità manifestata dalla propria vita che disponga ad accogliere l’annuncio di Cristo. È sempre attuale quel richiamo di S. Paolo VI: «L'uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri o, se ascolta i maestri, lo fa perché sono dei testimoni» (S. Paolo VI, Evangelii nuntiandi, n. 41).

Viviamo un tempo nel quale – anche per la diffusione dei social media - si moltiplicano le parole e le immagini che parlano delle realtà evangeliche, ma l’animo umano, pur risvegliato da questi opportuni richiami, ha bisogno del contatto vivo con esistenze profondamente cristiane.

Per questo dobbiamo avere il coraggio di mettere in primo piano la ricerca della nostra santità personale e di scacciare la tentazione di “dedicarsi alle cose di Dio”, ma “senza procedere prima di tutto personalmente nella vita di Dio!” Non possiamo “ dare sapore”, senza essere sale, nè “dare luce”, senza “essere luce”. "È necessario – ci dice S. Josemaría - che tu sia "uomo di Dio", uomo di vita interiore, uomo di preghiera e di sacrificio. - Il tuo apostolato dev'essere un traboccare della tua vita "al di dentro" (Cammino n. 961). Per questo è necessario avere a cuore di utilizzare i mezzi che il Signore ci offre per crescere nell’identificazione con Lui.

I sacramenti, di cui siamo dispensatori presso i fedeli, devono essere la nostra forza vitale. Il Sacrificio eucaristico e la Comunione al Corpo di Cristo devono essere davvero centro e radice della nostra vita quotidiana di sacerdoti. Il sacramento della Riconciliazione deve scandire i passi di un cammino reale di conversione e di crescita. La relazione personale con Cristo, attraverso il dialogo sincero della meditazione quotidiana e momenti opportuni di un piano di vita spirituale quotidiano, ci sostiene e ci illumina come avvenne con i discepoli sulla via per Emmaus e, infine, nello “ spezzare il pane”. È necessario coltivare la nostra formazione spirituale attraverso le opportunità che le stesse diocesi e altre istituzioni della Chiesa ci offrono.

A tutto questo deve accompagnarsi la disposizione ad affrontare la lotta interiore necessaria per seguire il Maestro:“a tutti, diceva: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua»” Lc 9,23. Per far affermare la vita di Cristo in noi, la grazia ha bisogno di trovare la corrispondenza - per amore a Dio - della nostra lotta contro “ l’uomo vecchio”. “Lotta ascetica, intima, che ogni cristiano è tenuto a sostenere contro tutto ciò che nella sua vita non viene da Dio: la superbia, la sensualità, l'egoismo, la superficialità, la meschinità del cuore” (
S. Josemaría Escrivá, E’ Gesù che passa, n. 73).

Nella Liturgia dell’ordinazione sacerdotale viene chiesto: “Volete essere sempre più uniti strettamente a Cristo Sommo Sacerdote che come vittima pura si è offerto al Padre per noi consacrando voi stessi a Dio insieme a lui per la salvezza degli uomini?”
E viene dato questo richiamo: "Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai. Conforma la tua vita al mistero della Croce di Cristo Signore."
Tutto questo ogni giorno, attraverso i compiti che ci sono affidati nel nostro quotidiano ministero, nello snodarsi delle varie circostanze che accompagnano la nostra missione.
e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa” Mt 5, 16.
Settembre 2023   



La grandezza delle cose piccole


"Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami». Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata»" Mt 13, 31-33.

Fra gli esempi e le parabole che il Signore racconta, per aiutarci ad entrare nel mistero del Regno di Dio, quella del granello di senape ci lascia comprendere che la crescita del Regno – in noi e fuori di noi – non dipende - né si può misurare - dalle dimensioni delle realtà umane attraverso le quali agisce la grazia, ma dalla sua fecondità intrinseca. Lo stesso si può dire dell’esempio del lievito che, pur essendo una piccola quantità, mescolato con una notevole quantità di farina, la trasforma tutta.

La mentalità umana guarda a ciò che è grande, e a ciò che “ fa rumore”: l’azione divina progredisce più abitualmente nel piccolo, e in ciò che non appare, che non fa rumore. Un aspetto, questo, di grande rilievo per ogni uomo e ogni donna che si confrontino con il desiderio di una pienezza di vita cristiana nella loro vita ordinaria nel mondo, fatta di tante piccole cose – compiti, gesti, relazioni, cc. – che si susseguono ogni giorno, che non saltano all’occhio per la loro importanza o singolarità e che “non fanno rumore”.

È proprio la vita trascorsa da Cristo per tanti anni a Nazaret - e con lui, quella di Maria e di Giuseppe - che ci parla della dimensione di pienezza di unione con Dio che può avere la vita ordinaria e ci apre alla comprensione del valore di santificazione del piccolo, di ciò che non fa rumore. "Gesù, che cresce e vive come uno di noi, - ci dice S. Josemaría Escrivá - ci rivela che l'esistenza umana, con le sue situazioni più semplici e comuni, ha un senso divino. Benché abbiamo considerato tante volte questa verità, ci deve pur sempre riempire di ammirazione la considerazione di quei trent'anni di oscurità che costituiscono la maggior parte del tempo che Gesù ha trascorso tra gli uomini suoi fratelli. Anni oscuri, ma per noi luminosi come la luce del sole. Sono, anzi, lo splendore che illumina i nostri giorni, che dà ad essi il loro autentico significato ....… la sua vita era stata la vita comune della gente della sua terra. Egli stesso era noto come faber, filius Mariae, l'artigiano, figlio di Maria. Ed era Dio, e veniva a compiere la Redenzione del genere umano, ad attirare a sé tutte le cose" (E’ Gesù che passa, n. 14-15).

È proprio nella vita ordinaria di Cristo a Nazaret che ogni uomo e ogni donna trova la luce dà una dimensione insospettata alla sua esistenza comune, quotidiana, fatta di piccoli gesti, dei compiti necessari per portare avanti la propria esistenza, quella della propria famiglia, del proprio lavoro, le abituali relazioni di parentela e amicizia, ecc.: cioè che proprio lì possa crescere il Regno di Dio, possano maturare frutti di autentica santità cristiana.

In questo orizzonte si colloca anche il nostro ministero sacerdotale che è chiamato a svolgersi ogni giorno inserendosi nello scorrere ordinario della vita degli uomini, per portare loro la grazia dei sacramenti, della Parola di Dio e della guida pastorale, attraverso i piccoli passi di ogni giorno: senza singolarità, senza “ fare rumore”. È in tal modo che siamo chiamati a essere sale, luce, ad essere buoni pastori per gli altri: ed è in tal modo che siamo chiamati a cercare la nostra santificazione.

Seguire Cristo nella vita ordinaria fa risplendere in modo particolare il valore di santificazione delle cose piccole: azioni piccole, minuscole, un po’ ovvie, che a uno sguardo superficiale possono sembrare slegate dal grande fine al quale miriamo e per questo quasi irrilevanti per la nostra relazione con Dio. Forse talvolta le percepiremo come “compimento di un dovere”; ma spesso nella loro sostanza possono sembrarci anonime, senza volto.
Eppure il Signore insiste: “Bene, servo buono e fedele, gli rispose il padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone” Mt 25, 23. 
Penetrando con fede e ascolto dello Spirito nella vita ordinaria di Gesù a Nazaret possiamo renderci conto che ogni Suo gesto pur piccolo esprimeva la ricerca dell’unione al Padre e la realizzava: una volontà di amore, di unione nel desiderio di compiere la Sua volontà. Ogni gesto di Cristo è scintilla di amore, di lode, di glorificazione, di donazione. In tal modo, attraverso l’azione della grazia, Cristo vuole far crescere il Suo Regno - riempire di ricchezza e di fecondità - nelle piccole cose della nostra vita ordinaria nelle quali ci attende perché è lì che ci ha chiamato a seguirlo. “Sappiatelo bene: c'è un qualcosa di santo, di divino, nascosto nelle situazioni più comuni, qualcosa che tocca a ognuno di voi scoprire” (S. Josemaría Escrivá, Colloqui, n.114).

Dobbiamo dunque reagire alla tentazione di pensare che il rapporto con Dio possa essere vivo solo nei momenti di preghiera, abbandonando così alla routine le piccole cose dell’operare quotidiano, quasi che a Dio quelle cose non interessino, in attesa forse di qualcosa di più vistoso. Prenderebbe spazio in noi una visione orizzontale: valgono le azioni che vengono apprezzate oppure quelle che più ci gratificano: le altre cercheremmo di “smaltirle”, accettando di percorrere tanti spazi di “privi di senso”. In tal modo ci sfuggirebbe il senso profondo dell’Incarnazione e il valore dei trent’anni di vita di Gesù a Nazaret.

In questo tempo estivo, nel quale spesso si smaglia il ritmo abituale del nostro ministero, lo sguardo di fede alle cose piccole di ogni giorno ci aiuterà a vivere l’unione con Dio, a rendere fecondo ogni gesto, anche apparentemente privo di significato. In particolare le piccole cose della carità e del servizio agli altri: accogliere una persona, la richiesta di ricevere il sacramento della riconciliazione, la preparazione della celebrazione eucaristica quotidiana, l’attenzione a un ammalato, le piccole necessità materiali della parrocchia, la piccola opportunità di stabilire una conversazione con una persona abitualmente lontana dalla Chiesa, uno spazio, benché limitato, di studio e approfondimento pastorale, il momento opportuno di riposo per recuperare le forze, ecc.

Ci aiuta Maria che, seguendo da vicino la vita ordinaria di Gesù, riempi di fecondità le piccole cose della sua vita quotidiana a Nazaret. “Perché è l'amore la chiave per intendere la vita di Maria. Un amore vissuto sino in fondo, sino alla dimenticanza completa di sé, nell'appagamento di essere là, dove Dio vuole, a compiere con diligenza appassionata la sua volontà. È per questo che ogni gesto di Maria, anche il più piccolo, non è mai banale, ma pieno di significato. Maria, nostra Madre, è per noi esempio e cammino. Dobbiamo cercare di imitarla nelle circostanze concrete in cui Dio ci chiede di vivere”. (S. Josemaría Escrivá, È Gesù che passa, n. 148)

  Luglio 2023   




Il Cuore di Gesù, pace dei cristiani
(da un'Omelia di S. Josemaría Escrivà)

Dio Padre si è degnato di concederci, nel cuore di suo Figlio, infinitos dilectionis thesauros, tesori inesauribili di amore, di misericordia, di tenerezza. Per convincerci dell'evidenza dell'amor di Dio - che non solo ascolta le nostre preghiere, ma le previene - basta seguire il ragionamento di san Paolo: Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con Lui?

La grazia rinnova l'uomo dall'interno e lo converte, da peccatore e ribelle, in servo buono e fedele. E fonte di ogni grazia è l'amore che Dio nutre per noi e che Egli stesso ci ha rivelato, non soltanto con le parole, ma con i fatti. L'amore divino fa sì che la seconda Persona della Santissima Trinità, il Verbo Figlio di Dio Padre, prenda la nostra carne, e cioè la nostra condizione umana, eccetto il peccato. E il Verbo, Parola di Dio, è Verbum spirans amorem, la Parola dalla quale procede l'Amore.

L'amore ci si rivela nell'Incarnazione, nel cammino redentore di Gesù Cristo sulla nostra terra, fino al sacrificio supremo della Croce. E, sulla Croce, si manifesta con un nuovo segno: Uno dei soldati gli colpì il costato con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua. Acqua e sangue di Gesù che ci parlano di una donazione realizzata sino in fondo, sino al consummatum est: tutto è compiuto, per amore.

Nella festa di oggi, considerando ancora una volta i misteri centrali della nostra fede, ci meravigliamo del modo in cui le realtà più profonde - l'amore di Dio Padre che dona il Figlio, e l'amore del Figlio che cammina sereno verso il Calvario - si traducano in gesti così alla portata degli uomini. Dio non si rivolge a noi in atteggiamento di potenza e di dominio; viene a noi assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini.

Gesù non si mostra mai lontano o altezzoso anche se nei suoi anni di predicazione lo vediamo a volte indignato e addolorato per la malvagità degli uomini. Ma, se facciamo attenzione, vediamo subito che il suo sdegno e la sua ira nascono dall'amore: sono un ulteriore invito a uscire dall'infedeltà del peccato. Forse che io ho piacere della morte del malvagio - dice il Signore - o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?
Queste parole ci spiegano tutta la vita di Cristo e ci fanno comprendere perché si è presentato a noi con un cuore di carne, con un cuore come il nostro, sicura prova di amore e testimonianza costante del mistero inenarrabile della carità divina.

Non posso fare a meno di confidarvi una cosa che mi fa soffrire e mi spinge ad agire: pensare agli uomini che ancora non conoscono Cristo, che non riescono ancora a intuire la profondità del tesoro che ci attende nel Cielo, e che camminano sulla terra come ciechi, inseguendo una gioia della quale ignorano il vero volto o perdendosi per strade che li allontanano dall'autentica felicità. Capisco bene ciò che l'apostolo Paolo dovette provare quella notte nella città di Troade, quando in sogno ebbe una visione: Gli stava davanti un macedone e lo supplicava: «Passa in Macedonia e aiutaci!». Dopo che ebbe avuto questa visione, subito cercammo - Paolo e Timoteo - di partire per la Macedonia, ritenendo che Dio ci aveva chiamati ad annunciarvi la parola del Signore.

Non sentite anche voi che Dio ci chiama, che ci urge, per mezzo di tutto ciò che accade attorno a noi, a proclamare la buona novella della venuta di Gesù? Ma, a volte, noi cristiani rimpiccioliamo la nostra vocazione, cadiamo nella superficialità, perdiamo il tempo in dispute e contese. O, peggio ancora, non manca chi si scandalizza falsamente per il modo in cui alcuni vivono certi aspetti della fede o determinate devozioni e, invece di aprir nuove strade sforzandosi essi stessi di viverle nella maniera che ritengono retta, si dedicano a criticare e a distruggere. Certamente possono verificarsi, e di fatto si verificano, delle manchevolezze nella vita dei cristiani. Ma ciò che importa non siamo noi con le nostre miserie: l'unica cosa che conta è Lui, Gesù. È di Cristo che dobbiamo parlare, non di noi stessi.

Queste riflessioni mi vengono suggerite da alcune voci intorno a una supposta "crisi" della devozione al Sacro Cuore di Gesù. Tale crisi non esiste; la vera devozione è stata ed è tuttora un atteggiamento vivo, pieno di senso umano e di senso soprannaturale. I suoi frutti sono, ieri come oggi, frutti saporosi di conversione e di donazione, di compimento della volontà di Dio, di penetrazione amorosa dei misteri della Redenzione. Cosa ben diversa sono invece le manifestazioni di certo sentimentalismo inefficace, carente di dottrina e impastato di pietismo. Nemmeno a me piacciono quelle immagini leccate, quelle figure del Sacro Cuore che non possono ispirare alcuna devozione a persone dotate di buon senso umano e soprannaturale. Ma non si dà prova di correttezza logica quando si trasformano certi abusi pratici, destinati a estinguersi da soli, in problemi dottrinali e teologici.

Se crisi c'è, è quella del cuore degli uomini, che non riescono - per miopia, per egoismo, per ristrettezza di orizzonti - a intravvedere l'insondabile amore di Cristo nostro Signore. La liturgia con cui la Santa Chiesa celebra, fin dalla sua istituzione, la festa del Sacro cuore, ha sempre offerto l'alimento della vera pietà raccogliendo come lettura della Messa un testo di san Paolo che ci propone tutto un programma di vita contemplativa - conoscenza e amore, orazione e vita - che si fonda proprio sulla devozione al Cuore di Gesù. Dio stesso, per bocca dell'Apostolo, ci invita a percorrere questo cammino: Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità, e conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio.

La pienezza di Dio ci viene rivelata e ci viene data in Cristo, nell'amore di Cristo, nel Cuore di Cristo. Perché è il cuore di Colui nel quale abita corporalmente tutta la pienezza della divinità. Ma quando si perde di vista questo grande disegno divino - la corrente d'amore instaurata nel mondo con l'Incarnazione, la Redenzione e la Pentecoste - non si potrà mai comprendere tutta la ricchezza del Cuore del Signore.

Prestiamo attenzione al significato profondo racchiuso in queste parole: Sacro Cuore di Gesù. Quando parliamo del cuore umano non ci riferiamo solo ai sentimenti, ma alludiamo a tutta la persona che vuol bene, che ama e frequenta gli altri. Nel modo umano di esprimerci, il modo raccolto dalle Sacre Scritture perché potessimo intendere le cose divine, il cuore è considerato come il compendio e la fonte, l'espressione e la radice ultima dei pensieri, delle parole e delle azioni. Un uomo, per dirla nel nostro linguaggio, vale ciò che vale il suo cuore. Al cuore appartengono: la gioia - gioisca il mio cuore nella tua salvezza; il pentimento - il mio cuore è come cera, si fonde in mezzo alle mie viscere; la lode a Dio - effonde il mio cuore liete parole; la decisione di ascoltare il Signore - saldo è il mio cuore; la veglia amorosa - io dormo, ma il mio cuore veglia; e anche il dubbio e il timore - non sia turbato il vostro cuore, abbiate fede in me.

Il cuore non si limita a sentire: sa e capisce. La legge di Dio si scrive nel cuore e in esso rimane scritta. La Scrittura aggiunge ancora: La bocca parla dalla pienezza del cuore. Il Signore apostrofa gli scribi: Perché mai pensate cose malvagie nei vostri cuori?. E, come sintesi dei peccati che l'uomo può commettere, Gesù dice: Dal cuore provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie. Quando la Sacra Scrittura parla del cuore, non intende un sentimento passeggero che porta all'emozione o alle lacrime. Parla del cuore - come testimonia lo stesso Gesù - per riferirsi alla persona che si rivolge tutta, anima e corpo, a ciò che considera il suo bene: Perché là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore.

Ecco pertanto che, considerando il Cuore di Gesù, scopriamo la certezza dell'amore di Dio e la verità del suo donarsi a noi. Nel raccomandare la devozione al Sacro Cuore, non facciamo che raccomandare di orientare integralmente noi stessi, con tutto il nostro essere - la nostra anima, i nostri sentimenti, i nostri pensieri, le nostre parole e le nostre azioni, le nostre fatiche e le nostre gioie - a Gesù tutto intero. La vera devozione al Cuore di Gesù consiste in questo: conoscere Dio e conoscere noi stessi, guardare a Gesù e ricorrere a Lui che ci esorta, ci istruisce, ci guida. In questa devozione non si dà altra superficialità che quella dell'uomo che, non essendo interamente umano, non riesce a cogliere la realtà del Dio incarnato.

Gesù crocifisso, con il cuore trafitto dall'amore per gli uomini, è una risposta eloquente - le parole sono superflue - alla domanda sul valore delle cose e delle persone. Gli uomini, la loro vita e la loro felicità, valgono tanto che lo stesso Figlio di Dio si dona loro per redimerli, purificarli, elevarli. Chi non amerà quel Cuore così ferito? si domandava un'anima contemplativa, davanti a questo spettacolo. E continuava: Chi non ricambierà amore per amore? Chi non abbraccerà un Cuore così puro? Noi, che siamo di carne, pagheremo amore con amore, abbracceremo il nostro ferito, al quale gli empi hanno trapassato mani e piedi, il costato e il Cuore. Chiediamogli che si degni di legare il nostro cuore con il vincolo del suo amore e di ferirlo con la lancia, perché è ancora duro e impenitente.

Sono pensieri, affetti, espressioni che da sempre le anime innamorate hanno rivolto a Gesù. Ma per intendere questo linguaggio, per capire veramente il cuore umano, il Cuore di Cristo e l'amore di Dio, occorrono fede e umiltà. Frutto di fede e di umiltà sono le parole universalmente famose che sant'Agostino ci ha lasciato: Ci hai creato, Signore, per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te.

Quando si trascura l'umiltà, l'uomo pretende di appropriarsi di Dio, e non nella maniera divina che Cristo ha reso possibile dicendo: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo; bensì cercando di ridurre la grandezza divina ai limiti umani. La ragione umana, la ragione fredda e cieca che non è l'intelligenza che procede dalla fede, e nemmeno la retta intelligenza di chi sa gustare e amare le cose, si trasforma nell'insensatezza di chi sottomette ogni cosa alle sue povere esperienze banali, quelle che rimpiccioliscono la verità sovrumana e ricoprono il cuore di una crosta insensibile alle mozioni dello Spirito Santo. La nostra povera intelligenza si smarrirebbe se non ci venisse incontro il potere misericordioso di Dio che rompe le frontiere della nostra miseria: Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo; toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. E l'anima ritrova la luce, si riempie di gioia, davanti alle promesse della Sacra Scrittura. (continua)

         Giugno 2023      



E tutti furono colmati di Spirito Santo

«Pentecoste arrivò, per i discepoli, dopo cinquanta giorni incerti. Da un lato Gesù era Risorto, pieni di gioia lo avevano visto e ascoltato, e avevano pure mangiato con Lui. Dall’altro lato, non avevano ancora superato dubbi e paure: stavano a porte chiuse (cfr Gv 20,19.26), con poche prospettive, incapaci di annunciare il Vivente. Poi arriva lo Spirito Santo e le preoccupazioni svaniscono: ora gli Apostoli non hanno timore nemmeno davanti a chi li arresta; prima preoccupati di salvarsi la vita, ora non hanno più paura di morire; prima rinchiusi nel Cenacolo, ora annunciano a tutte le genti. …. Lo Spirito Santo ha fatto questo» (Papa Francesco, Omelia Pentecoste, 9-06-2019).

La forza della Risurrezione ci ha riempito una volta ancora di una più profonda consapevolezza dell’amore di Dio per noi: «noi abbiamo conosciuto e abbiamo creduto all’Amore che Dio ha per noi». E d’altra parte, l’esperienza – talvolta le fatiche e le preoccupazioni - delle vicende che accompagnano la vita del nostro mondo chiedono una maturazione più piena della nostra fede, della nostra speranza e un nuovo slancio di dedizione ai progetti divini.
Risuonano di nuovo in noi le parole di Gesù poco prima di ascendere al Cielo: «riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (Atti 1,8).
La promessa di Gesù ci muove ad aprirci con fiducia all’azione dello Spirito Santo per un rinnovamento profondo della nostra vita e del nostro ministero sacerdotale, affinché la nostra vita divenga una testimonianza luminosa e feconda della Redenzione.

Ci siamo uniti ai discepoli che riuniti in preghiera nel Cenacolo, sotto la guida di Maria, per prepararsi a ricevere il Paraclito promesso da Gesù. Se per i discepoli fu preparazione a ricevere la pienezza della presenza e dell’azione dello Spirito Santo, per noi che abbiamo lo già ricevuto, la Pentecoste è un momento di grazia per riscoprire la presenza e l’opera di Colui che già vive e opera nella Chiesa e nella vita di ciascuno di noi e per donarci più profondamente alla Sua azione.

Contemplando la forza e l’efficacia che lo Spirito ebbe nella vita e nel ministero di quei primi, ci chiediamo che cosa manca a noi affinché si ripetano anche nella nostra vita e nel ministero che portiamo avanti al servizio della Chiesa quei frutti di conversioni e di santità.
Pensando a quei primi nostri fratelli veniamo colpiti dalla forza con cui la loro testimonianza incise nella vita dei loro contemporanei provocando tante conversioni alla fede e possiamo chiederci perché lo Spirito Santo non operi tante meraviglie anche oggi come allora.

Nella nostra preghiera, nel colloquio sincero con lo Spirito stesso, ci renderemo conto che molto appartiene alle nostre disposizioni: al modo in cui ci apriamo a Lui, in cui crediamo, in cui lo ascoltiamo e ci facciamo docili alle sue indicazioni. "Dio è sempre lo stesso.- ci ricorda San Josemaría - Occorrono uomini di fede: e si rinnoveranno i prodigi che leggiamo nella Sacra Scrittura. - Ecce non est abbreviata manus Domini. Il braccio di Dio, il suo potere, non s'è rimpiccolito!" (Cammino, n. 586)

Sì. Forse comprenderemo che c’è bisogno di un ulteriore salto nella nostra vita di fede. L’impegno umano che riversiamo nel nostro ministero, l’applicazione attenta di tutte le nostre capacità nel sincero desiderio di avvicinare gli uomini a Dio, può portarci, talvolta, a riporre di fatto la nostra fiducia più sui mezzi umani (le nostre capacità personali, i mezzi materiali a disposizione, l’analisi della capacità degli uomini di poter comprendere, il consenso sociale che si raccoglie, ecc.) che sull’azione dello Spirito. Talvolta il coinvolgimento in una visione più orizzontale dell'impegno pastorale può farci disperdere nel raggiungimento di obbiettivi solo umani, ritenendo difficilmente raggiungibili le mete che Gesù stesso ci ha indicato per tutti gli uomini: la conversione al regno di Dio, la partecipazione alla vita nuova in Cristo, la santità.

"Dentro, nel cuore i discepoli avevano bisogno di essere cambiati. La loro storia ci dice che persino vedere il Risorto non basta, se non Lo si accoglie nel cuore. Non serve sapere che il Risorto è vivo se non si vive da risorti. Ed è lo Spirito che fa vivere e rivivere Gesù in noi, che ci risuscita dentro" (ibidem). Contemplando la fede viva degli apostoli dopo la Pentecoste, la loro testimonianza coraggiosa e il loro zelo di evangelizzazione in un mondo così lontano da Cristo o addirittura avverso a Lui, ci sentiamo profondamente interpellati dallo Spirito Santo a vivere più di fede e di speranza, e a lasciarci portare della forza della carità: «perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rom 5,5).

"È lo Spirito che, come dice oggi San Paolo, ci impedisce di ricadere nella paura perché ci fa sentire figli amati (cfr Rm 8,15). È il Consolatore, che ci trasmette la tenerezza di Dio. Senza lo Spirito la vita cristiana è sfilacciata, priva dell’amore che tutto unisce. Senza lo Spirito Gesù rimane un personaggio del passato, con lo Spirito è persona viva oggi; senza lo Spirito la Scrittura è lettera morta, con lo Spirito è Parola di vita. Un cristianesimo senza lo Spirito è un moralismo senza gioia; con lo Spirito è vita" (ibidem).

Con la liturgia della Pentecoste invochiamo i doni dello Spirito, e i frutti della sua azione in noi. “Vieni o Spirito Santo, riempi il cuore dei tuoi fedeli e accendi in esse il fuoco del tuo amore …” Dobbiamo chiedere allo Spirito Santo che accenda in noi il desiderio di Lui, che possiamo dare più spazio alla sua presenza nella nostra vita, che ci facciamo sempre più docili alla sua azione trasformante.

"Così vissero i primi cristiani, e così dobbiamo vivere tutti noi: la meditazione della dottrina della fede, fino ad assimilarla pienamente, l'incontro con Cristo nell'Eucaristia, il dialogo personale - la preghiera senza anonimato - a tu per tu con Dio, devono arrivare a essere come la sostanza della nostra condotta. Se dovessero mancare, ci potrebbero pur essere la riflessione erudita, l'attività più o meno intensa, le devozioni e le pratiche di pietà. Ma non ci sarebbe autentica esistenza cristiana, perché mancherebbe la compenetrazione con Cristo, la partecipazione reale e vissuta all'opera della salvezza" (S. Josemaría Escrivá, E’ Gesù che passa, n.134).

Come gli apostoli, vogliamo maturare un salto nella relazione con lo Spirito Santo che anima la Chiesa e la nostra vita personale e lasciarci guidare da Lui a cercare con nuovo slancio la santificazione personale e portare la nostra testimonianza di fede libera da timori e indugi, a quanti ci circondano per rivelare loro «le grandi opere di Dio» (Atti 2,11): lanciarci in un impegno pastorale nel quale non misuriamo le cose secondo una mera visione umana, ma secondo la potenza dello Spirito e, sotto la sua spinta, prendiamo il largo con lo stesso zelo che si accese nel cuore di quegli uomini semplici e senza risorse umane, ma che, nell’azione dello Spirito, incendiarono il mondo con la loro fede e il loro amore.

Maggio 2023    



Cristo vive

«Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto» (Lc 24,5). Cristo vive. Con la forza del suo amore ha vinto la morte, è risorto.

“Oggi proclamiamo che Lui, il Signore della nostra vita, è «la risurrezione e la vita» del mondo (cfr Gv 11,25). …Non siamo soli: Gesù, il Vivente, è con noi per sempre. Gioiscano la Chiesa e il mondo, perché oggi le nostre speranze non si infrangono più contro il muro della morte, ma il Signore ci ha aperto un ponte verso la vita. Sì, fratelli e sorelle, a Pasqua la sorte del mondo è cambiata e quest’oggi, che coincide pure con la data più probabile della risurrezione di Cristo, possiamo rallegrarci di celebrare, per pura grazia, il giorno più importante e bello della storia” (Papa Francesco – Messaggio Urbi et Orbi – S. Pasqua 2023).

Cristo risorto accompagna e illumina il cammino dell’umanità intera e di ciascun uomo, anche nei passaggi più difficili dell’esistenza terrena, per guidarlo alla pienezza di vita in Dio. Il dolore e le prove che accompagnano la nostra vita non possono oscurare la luce e la forza della Pasqua: nella fede ogni uomo può riconoscervi con chiarezza la sorgente inesauribile della Speranza.

Nel suo cammino terreno il cristiano può lasciare che si annebbi in lui lo sguardo della fede, chiudendo le sue aspirazioni nel raggiungimento di un contesto di vita che, in nome di Dio, gli allontani le difficoltà e gli garantisca sicurezze e gratificazioni terrene. Perfino negli ultimi momenti prima della Ascensione di Gesù al Cielo, qualcuno dei suoi gli chiedeva «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Il possibile miraggio - riduzione terrena della portata della Salvezza - di raggiungere con Cristo una vittoria in termini di sicurezza umana, di benessere, di successo - a livello individuale o sociale -, ha sempre accompagnato, come facile tentazione, il cammino del cristiano durante i secoli, distogliendolo del cercare il frutto genuino del suo cammino nella autentica crescita in Cristo, nella santità!

La rinnovata celebrazione della Risurrezione di Cristo porta con sé una grazia speciale per ogni cristiano: gli permette di scoprire più a fondo il dono della pienezza di vita in Dio che Gesù ci ha guadagnato e ha riversato in noi con il Battesimo.

L’esperienza della fede in Gesù risorto dei primi cristiani trasformò la loro esistenza quotidiana, dando ed essa un nuovo e pregnante significato e proiettandola verso la pienezza di vita in Cristo risorto. Vivevano della Risurrezione: era la luce che tracciava la direzione sicura del loro cammino terreno e la fonte della speranza che guidava il loro discernimento nelle scelte quotidiane affinché si realizzasse in loro quanto dice S.Paolo: "Vi siete spogliati dell'uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore". In tal modo, la forza della risurrezione di Cristo -trasformando il loro vivere quotidiano nel mondo - toccava quanti li circondavano e li attraeva alla fede.

Le vicende umane talora dolorose che la nostra vita attraversa, le delusioni rispetto ad aspettative tanto coltivate  ci rendono in qualche modo partecipi dello smarrimento dei discepoli in cammino verso Emmaus di fronte alla passione e morte del Maestro. Con loro siamo chiamati a riscoprire la presenza di Cristo risorto che cammina accanto a noi, ad aprire con lui un colloquio personale più vivo e sincero, disponibili a lasciarci spiegare i disegni amorevoli del Padre. Quei discepoli si aspettavano un regno terreno e, toccati dalla tragicità e imprevedibilità degli avvenimenti,  erano caduti nella delusione e nello scotaggiamento: così non riconobbero Gesù che pure stava accanto a loro, vivo e che desiderava illuminare le loro menti e riscaldare i loro cuori.

Anche noi dobbiamo aprirci a un colloquio sincero e fiducioso con Gesù riconoscendolo vivo e operante con la sua grazia nello “spezzare il pane” della celebrazione eucaristica e  lasciarci trasformare dalla sua grazia. Da Lui solo comprendiamo, in un modo profondo e decisivo, il senso delle cose e degli avvenimenti secondo l’azione amorevole di Dio. Egli illumina la nostra notte, riaccende in noi il fuoco della fede e dell’amore: ci prepara – come fu per i discepoli di Emmaus - ad essere presso tutti gli uomini testimoni della sua Risurrezione.

“I nostri occhi si aprono come quelli di Cleofa e del suo compagno, quando Gesù spezza il pane; e benché Egli di nuovo scompaia al nostro sguardo, saremo capaci, come loro, di riprendere il cammino - è già notte - per parlare di Lui agli altri, perché per tanta gioia un cuore solo non basta. Verso Emmaus. Il Signore ha reso dolcissimo questo nome. Ed Emmaus è il mondo intero, perché il Signore ha aperto i cammini divini della terra” (S. Josemaría Escrivá, E’ Gesù che passa, n. 314).

Come pastori del popolo di Dio, penetrati dalla fede nel risorto dobbiamo essere, per tutti, Gesù che - come a Emmaus – si fa accanto lungo il cammino della vita per aprire il loro cuore al dono di poterci a rivestire di Lui e chiamarli a seguirlo nel cammino della santità che conduce alla nostra vera vita “nascosta con Cristo in Dio” (Col 3,3).

“Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio” (Col 3,1). Un invito che in questo tempo pasquale possiede un sapore nuovo, che può davvero lasciare una traccia profonda, scandire nuovi e importanti passaggi della fede e del vivere cristiano di tanti fedeli a noi affidati, affinché come i primi cristiani siano, nelle vicende del vivere quotidiano, testimoni della Risurrezione di Cristo che attraverso di loro vuole parlare agli uomini del nostro tempo per chiamarli a seguirlo verso la pienezza di vita, verso la santità.

Aprile 2023



Seguire Cristo nella lotta interiore
(dall’Omelia “La lotta interiore”, pronunciata da S. Josemaría Escrivà nella Domenica delle Palme)

Al pari di ogni festa cristiana, quella che oggi celebriamo è soprattutto una festa di pace. I rami d'ulivo, nel loro antico simbolismo, evocano un episodio narrato nel libro della Genesi: Noè attese altri sette giorni e di nuovo fece uscire la colomba dall'arca, e la colomba tornò a lui sul far della sera; ecco, essa aveva nel becco un ramoscello di ulivo. Noè comprese che le acque si erano ritirate dalla terra. Ora ricordiamo che l'alleanza tra Dio e il suo popolo è riconfermata e stabilita in Cristo, perché Egli è la nostra pace. Nella meravigliosa unità della Liturgia della Santa Chiesa Cattolica, che ricapitola il vecchio e il nuovo, noi leggiamo oggi parole di profonda gioia: Le folle degli Ebrei, portando rami d'ulivo, andavano incontro al Signore e acclamavano a gran voce: «Osanna all'Altissimo Dio».
L'acclamazione a Gesù rievoca nel nostro spirito quella che ne salutò la nascita a Betlemme. Via via che egli avanzava - narra san Luca - stendevano i loro mantelli sulla strada. Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, esultando, cominciò a lodare Dio a gran voce, per tutti i prodigi che avevano veduto, dicendo: «Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!».

Pax in coelo! Ma gettiamo uno sguardo anche sul mondo. C'è forse pace sulla terra? No, non c'è. Vi è una pace apparente, l'equilibrio della paura, dei compromessi precari. Non c'è pace nemmeno nella Chiesa, così scossa da tensioni che lacerano la bianca tunica della Sposa di Cristo. Non c'è pace in tanti cuori che tentano invano di compensare l'inquietudine dell'anima con un'attività incessante, con la minuscola soddisfazione di beni che non saziano, perché lasciano dietro di sé il sapore amaro della tristezza.

Le palme - scrive sant'Agostino - sono segno di trionfo, perché indicano la vittoria. Il Signore avrebbe vinto morendo sulla Croce. Nel segno della Croce avrebbe trionfato sul diavolo, principe della morte. Gesù è la nostra pace perché Egli ha vinto. Ha vinto perché ha combattuto la dura battaglia contro tutto il cumulo di malizia dei cuori umani.
Cristo, nostra pace, è anche Via. Se vogliamo la pace, dobbiamo seguire i suoi passi. La pace è la conseguenza della guerra, della lotta. Lotta ascetica, intima, che ogni cristiano è tenuto a sostenere contro tutto ciò che nella sua vita non viene da Dio: la superbia, la sensualità, l'egoismo, la superficialità, la meschinità del cuore. È inutile reclamare la serenità esteriore quando manca la tranquillità nella coscienza, nell'intimo dell'anima, perché dal cuore provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie.

Ma questo linguaggio non suonerà antiquato? Non è stato forse sostituito da parole d'occasione, da cedimenti personali rivestiti di orpelli falsamente scientifici? Non vige ormai un tacito accordo secondo cui i veri beni sono il denaro che compra tutto, il potere temporale, la furbizia di rimanere sempre sulla cresta dell'onda, la sapienza umana che si autodefinisce adulta e ritiene di aver superato il sacro?

Non sono mai stato né sono pessimista, perché la fede mi dice che la vittoria di Cristo è definitiva e che Egli ci ha dato, a garanzia della sua conquista, un comando che per noi è un impegno: lottare. Noi cristiani siamo vincolati da un impegno d'amore liberamente accettato quando abbiamo accolto la chiamata della grazia divina; siamo vincolati da un obbligo che ci spinge a lottare tenacemente, perché sappiamo bene di essere fragili, al pari degli altri uomini. Ma sappiamo anche che, adoperando i mezzi, saremo il sale, la luce, il lievito del mondo: saremo la consolazione di Dio.
La nostra volontà di perseverare con fermezza in questo proposito d'amore è inoltre un dovere di giustizia. Il modo pratico di corrispondere a questa esigenza, comune a tutti i fedeli, è una battaglia incessante. La tradizione della Chiesa ha sempre considerato i cristiani come milites Christi, soldati di Cristo. Soldati che portano agli altri la serenità mentre combattono costantemente le proprie cattive inclinazioni. Sovente, per scarso senso soprannaturale, per mancanza di fede pratica, non si vuol capire nulla della vita presente concepita come milizia. Si insinua maliziosamente che, considerandoci milites Christi, corriamo il pericolo di servirci della fede per fini temporali di sopraffazione e di parte. Questo modo di pensare è una deprecabile e irragionevole semplificazione che va di pari passo con la comodità e la viltà.

Non c'è niente di più estraneo alla fede cristiana del fanatismo con cui vengono proposti strani connubi tra il profano e lo spirituale, qualunque ne sia il colore. Tale pericolo non esiste se per lotta si intende quello che Cristo ci ha insegnato, e cioè la guerra che ognuno deve combattere contro se stesso, lo sforzo sempre rinnovato di amare di più Dio, di respingere l'egoismo, di servire tutti gli uomini. Rinunciare a questa impresa, sotto qualunque pretesto, significa darsi per vinti anzitempo, restare annientati e senza fede, con l'anima abbattuta e dispersa in compiacenze meschine.
Per il cristiano, combattere la propria battaglia al cospetto di Dio e di tutti i fratelli nella fede, è la necessaria conseguenza della sua condizione. Se pertanto qualcuno non lotta, tradisce Gesù Cristo e il suo Corpo Mistico, che è la Chiesa.

La lotta del cristiano non ha soste, perché nella vita interiore si verifica quel continuo cominciare e ricominciare che impedisce che a un dato momento la superbia ci faccia considerare perfetti. È inevitabile che vi siano molte difficoltà nel nostro cammino; se non trovassimo ostacoli, non saremmo creature di carne ed ossa. Vi saranno sempre delle passioni pronte a trascinarci in basso, e dovremo sempre difenderci da tali deliri, più o meno veementi.
Il fatto di sentire nel corpo e nell'anima il pungolo della superbia, della sensualità, dell'invidia, della pigrizia, dello spirito di sopraffazione, non dovrebbe costituire una scoperta. Si tratta di un male antico, sistematicamente verificato nella nostra esperienza personale; esso è il punto di partenza e l'atmosfera abituale per vincere in questo intimo sport, nella nostra corsa verso la casa del Padre. San Paolo insegna infatti: Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta: faccio il pugilato, ma non come chi batte l'aria; anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù, perché non succeda che dopo aver predicato agli altri, venga io stesso squalificato.

Per cominciare a sostenere la prova, il cristiano non deve aspettare segnali esterni o stati d'animo favorevoli. Nella vita interiore ciò che conta non sono gli stati d'animo, ma la grazia divina, la volontà, l'amore. Tutti i discepoli furono capaci di seguire Gesù nell'ora del trionfo a Gerusalemme, ma quasi tutti lo abbandonarono nell'ora ignominiosa della Croce.
Per amare sul serio è necessario essere forti, leali, avere il cuore saldamente ancorato alla fede, alla speranza e alla carità. Solo chi è inconsistente e fatuo muta capricciosamente l'oggetto dei suoi affetti, che in realtà non sono affetti, ma soddisfazioni egoistiche. Quando c'è amore c'è lealtà, vale a dire capacità di donazione, di sacrificio, di rinuncia. E nel bel mezzo della donazione, del sacrificio e della rinuncia, pur con il tormento delle contrarietà, si trovano la felicità e la gioia; una gioia che nulla e nessuno potrà toglierci.

In questa giostra d'amore, le cadute non devono avvilirci, ancorché fossero gravi, purché ci rivolgiamo a Dio nel sacramento della Penitenza con dolore sincero e proposito retto. Il cristiano non è un collezionista fanatico di certificati di servizio senza macchia. Gesù nostro Signore, che tanto si commuove dinanzi all'innocenza e alla fedeltà di Giovanni, si intenerisce allo stesso modo, dopo la caduta di Pietro, per il suo pentimento. Gesù, che comprende la nostra fragilità, ci attrae a sé guidandoci come per un piano inclinato ove si sale a poco a poco, giorno per giorno, perché desidera che il nostro sforzo sia perseverante. Ci cerca come cercò i discepoli di Emmaus, andando loro incontro; come cercò Tommaso per mostrargli e fargli toccare con le sue stesse mani le piaghe aperte sul suo corpo. Proprio perché conosce la nostra fragilità Gesù attende sempre che torniamo a Lui.

Ci dice san Paolo: Prendi anche tu la tua parte di sofferenza, come un buon soldato di Cristo Gesù. La vita del cristiano è milizia, è guerra, bellissima guerra di pace che non assomiglia in nulla alle imprese belliche degli uomini, perché queste si ispirano alla divisione e all'odio, mentre la guerra che i figli di Dio combattono contro il proprio egoismo si fonda sull'unità e sull'amore. Noi - insegna infatti san Paolo - viviamo nella carne, ma non militiamo secondo la carne. Infatti le armi della nostra battaglia non sono carnali, ma hanno da Dio la potenza di abbattere le fortezze, distruggendo i ragionamenti e ogni baluardo che si leva contro la conoscenza di Dio. È la schermaglia senza tregua contro l'orgoglio, contro la prepotenza che ci dispone ad agire malamente, contro l'arroganza nel giudicare.

In questa Domenica delle Palme, nel commemorare il giorno in cui il Signore dà inizio alla settimana decisiva per la nostra salvezza, mettiamo da parte le considerazioni superficiali, andiamo all'essenza, a ciò che è veramente importante. Ebbene, la nostra aspirazione è andare in Cielo. Altrimenti non c'è nulla che valga la pena. Per andare in Cielo è indispensabile la fedeltà alla dottrina di Cristo. Per essere fedeli è indispensabile insistere con costanza nella lotta contro gli ostacoli che si oppongono alla nostra felicità eterna.

So bene che, quando si parla di lotta, si erge dinanzi a noi la consapevolezza della nostra fragilità che ci fa prevedere le cadute e gli errori. Ma Dio mette in conto queste cose: mentre si cammina è inevitabile che si alzi la polvere della strada. Siamo creature, e come tali abbiamo tanti difetti. Direi che conviene che ve ne siano sempre: sono come un'ombra che fa sì che nell'anima, per contrasto, risaltino di più la grazia di Dio e il nostro sforzo di corrispondere al favore divino. Questo chiaroscuro ci fa più umani, più umili, più comprensivi, più generosi.

Cerchiamo di non ingannarci: se nella nostra vita costatiamo momenti di slancio e di vittoria, costatiamo pure momenti di decadimento e di sconfitta. Tale è stato sempre il pellegrinaggio terreno dei cristiani, non esclusi quelli che veneriamo sugli altari. Vi ricordate di Pietro, di Agostino, di Francesco? Non ho mai apprezzato quelle biografie che ci presentano - con ingenuità, ma anche con carenza di dottrina - le imprese dei santi come se essi fossero stati confermati in grazia fin dal seno materno. Non è così. Le vere biografie degli eroi della fede sono come la nostra storia personale: lottavano e vincevano, lottavano e perdevano; in tal caso, contriti, tornavano alla lotta.
Non sorprendiamoci di vederci sconfitti con relativa frequenza: di solito, o anche sempre, in cose di poca importanza ma che ci affliggono come se ne avessero molta. Quando c'è amor di Dio, quando c'è umiltà, quando c'è perseveranza e fermezza nella lotta, queste sconfitte non avranno mai molto peso. Non solo, ma verranno le vittorie, che saranno a nostra gloria agli occhi di Dio. Non esiste l'insuccesso quando si agisce con rettitudine di intenzione, quando si vuole compiere la volontà di Dio e si fa affidamento sulla sua grazia, consapevoli del nostro nulla.

Ma è in agguato un nemico potente che si oppone al nostro desiderio di incarnare fino in fondo la dottrina di Cristo: è la superbia, che cresce quando non cerchiamo di scoprire dietro agli insuccessi e alle sconfitte la mano benefica e misericordiosa del Signore. L'anima si vela allora di penombra - di triste oscurità - e si sente perduta. L'immaginazione inventa ostacoli irreali che si dissolverebbero se guardassimo le cose con briciolo di umiltà. A motivo della superbia e dell'immaginazione l'anima si caccia a volte in tortuosi calvari, nei quali però non v'è Cristo, perché dove è il Signore si gode la pace e la gioia, anche quando l'anima è in carne viva e circondata da tenebre.

C'è un altro nemico ipocrita della nostra santificazione: l'idea che la battaglia interiore vada sferrata contro ostacoli straordinari, contro draghi che buttano fuoco dalle fauci. È un tranello dell'orgoglio: vogliamo lottare, ma con grande spettacolo, tra squilli di trombe e svettare di stendardi.
Dobbiamo convincerci che il nemico più grande della roccia non è il piccone o altro strumento di demolizione, per potente che sia: è quell'acqua insignificante che penetra, a goccia a goccia, fra le sue fenditure, fino a disgregarne la struttura. Il pericolo più grande per il cristiano è quello di disprezzare la lotta nelle cose piccole che penetrano a poco a poco nell'anima fino a renderla molle, fragile e indifferente, insensibile ai richiami di Dio.
Ascoltiamo il Signore: Chi è fedele nel poco è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto. È come se Egli ci ricordasse: lotta ogni istante in quei particolari in apparenza di poco conto, ma grandi al mio cospetto; vivi con precisione il compimento del dovere; sorridi a chi ne ha bisogno, anche se la tua anima è sofferente; dedica all'orazione il tempo necessario, senza ritagliarlo; va' incontro a chi cerca il tuo aiuto; esercita la giustizia arricchendola con il garbo della carità.

Queste e altre simili sono le mozioni che ogni giorno sentiremo dentro di noi, come richiami silenziosi che ci spingono ad allenarci nello sport soprannaturale del dominio di noi stessi. Ci illumini la luce di Dio, facendoci percepire i suoi ammonimenti; ci aiuti Lui a lottare e sia al nostro fianco nella vittoria; non ci abbandoni al momento della caduta, perché con Lui potremo sempre rialzarci e continuare a combattere. Non possiamo sostare. Il Signore ci chiede di lottare guadagnando sempre di più in prontezza, in profondità, in estensione. È nostro dovere superarci, perché in questa prova c'è un'unica meta, la gloria del Cielo: se non la raggiungiamo, tutto sarà stato inutile. continua

Marzo 2023


Tempo di conversione

Tu ami tutte le tue creature, Signore, e nulla disprezzi di ciò che hai creato; tu dimentichi i peccati di quanti si convertono e li perdoni, perché tu sei il Signore nostro Dio” (Liturgia del Mercoledì delle Ceneri). Si rinnova un tempo di amore, di tenerezza paterna del nostro Dio che si fa incontro ai suoi figli per portarli più dentro alla sua stessa vita, aiutandoli ad allontanare da sé ciò che vi si oppone o che la ostacola.

È il mistero della gelosia divina che non si riferisce a una sua volontà di possesso, ma alla verità della nostra vita e al suo desiderio di portarla a pienezza, alla vera gioia. Per questo ci offre l’occasione per una nuova e più profonda conversione al suo amore. “Il Signore non si accontenta di condividere: chiede tutto. E avvicinarsi un po' di più a Lui vuol dire essere disposti a una nuova conversione, a una nuova rettificazione, ad ascoltare più attentamente le sue ispirazioni, i santi desideri che egli fa sbocciare nella nostra anima, e a metterli in pratica” (S. Josemaría Escrivá - È Gesù che passa, n.58).

Una conversione che nasce, nell'azione della grazia, da una nuova attualizzazione delle Fede, della Speranza e di quell'amore di Dio che “è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rom 5,5).

Le virtù teologali del cristiano vengono chiamate a una nuova e attuale incidenza sulla sua vita, attraverso un rinnovato contatto con “il grande Mistero della morte e risurrezione di Gesù, cardine della vita cristiana personale e comunitaria. A questo Mistero dobbiamo ritornare continuamente, con la mente e con il cuore. Infatti, esso non cessa di crescere in noi nella misura in cui ci lasciamo coinvolgere dal suo dinamismo spirituale e aderiamo ad esso con risposta libera e generosa” (Papa Francesco - Messaggio per la Quaresima 2020).

E' l'appuntamento con un nuovo incontro personale con Cristo dal quale scaturisca una più profonda esigenza di amore: “il seme divino della carità, che Dio ha posto nelle nostre anime, aspira a crescere, a manifestarsi in opere e a produrre frutti che in ogni momento corrispondano ai desideri del Signore" (S. Josemaría Escrivá - È Gesù che passa, n.58).

La chiamata alla conversione che la misericordia di Dio amorosamente rivolge a tutti gli uomini, risuona con particolare pregnanza nel cuore dei pastori. Guidare le figlie e i figli di Dio sulle strade della conversione e della più piena partecipazione alla vita della grazia, richiede a loro per primi una piena disponibilità di ascolto dello Spirito in un “faccia a faccia” col Signore crocifisso e risorto che muova alla maturazione di una vera trasformazione.

La volontà di corrispondenza alla grazia si manifesterà, e prenderà corpo, nel percorrere con umile determinazione i cammini della preghiera, della penitenza e dell’esercizio della carità.

In primo luogo, la preghiera: “quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto”. Raccogliersi nell’intimità con Dio in una preghiera piena di semplicità e sincerità. “.. io vorrei per tutti noi la vera orazione dei figli di Dio, - ci esorta S. Josemaria Escrivá - non la verbosità degli ipocriti a cui è rivolto l'ammonimento di Gesù: Non chiunque mi dice: «Signore, Signore!» entrerà nel regno dei cieli [Mt 7, 21]. Coloro che sono mossi da ipocrisia potranno forse ottenere il rumore dell'orazione - scriveva Sant'Agostino - ma non la sua voce, perché in essi manca la vita [Sant'Agostino, Enarrationes in Psalmos, 139, 10], perché manca la disposizione di compiere la volontà del Padre. Il nostro invocare il Signore vada dunque unito al desiderio efficace di tradurre in realtà le mozioni interiori che lo Spirito Santo suscita nella nostra anima” (Amici di Dio, 243).

È un richiamo a superare la routine nella quale talora la nostra preghiera perde il contatto vivo con Dio e l’incidenza sulla nostra vita. «Chiediamoci, magari dopo tanti anni di ministero, che cos’è oggi per noi, che cos’è oggi per me, pregare. Forse la forza dell’abitudine e una certa ritualità ci hanno portati a credere che la preghiera non trasformi l’uomo e la storia. Invece pregare è trasformare la realtà. È una missione attiva, un’intercessione continua. Non è distanza dal mondo, ma cambiamento del mondo. Pregare è portare il palpito della cronaca a Dio perché il suo sguardo si spalanchi sulla storia. Cos’è per noi pregare? E ci farà bene oggi domandarci se la preghiera ci immerge in questa trasformazione; se getta una luce nuova sulle persone e trasfigura le situazioni. Perché se la preghiera è viva, “scardina dentro”, ravviva il fuoco della missione, riaccende la gioia, provoca continuamente a lasciarci inquietare dal grido sofferente del mondo» (Francesco, Omelia, 12 marzo 2022).

Alla preghiera si uniscono la penitenza e la mortificazione: “La vocazione cristiana è vocazione di sacrificio, di penitenza, di espiazione. Dobbiamo riparare per i nostri peccati (…) e per tutti i peccati degli uomini. (…) La mortificazione è il sale della nostra vita. E la migliore mortificazione è quella che - in piccole cose, lungo tutta la giornata - combatte contro la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita. Si tratta di mortificazioni che non mortificano gli altri, che ci rendono più garbati, più comprensivi, più aperti con tutti” (S. Josemaría Escrivá - È Gesù che passa, n.9).

Il frutto genuino di un autentico cammino di conversione attraverso la preghiera e il sacrificio si manifesterà nella crescita della carità. “Chi nel domandare desidera di essere esaudito, esaudisca chi gli rivolge domanda. Chi vuol trovare aperto verso di sé il cuore di Dio non chiuda il suo a chi lo supplica. (…) Ascolti chi ha fame, se vuole che Dio gradisca il suo digiuno. Abbia compassione, chi spera compassione. Chi domanda pietà, la eserciti. Chi vuole che gli sia concesso un dono, apra la sua mano agli altri” (dalla Liturgia delle ore della Quaresima - «Discorsi» di san Pietro Crisologo, vescovo).

In modo particolare per noi pastori “mettere il Mistero pasquale al centro della vita significa sentire compassione per le piaghe di Cristo crocifisso“(Papa Francesco, Messaggio per la Quaresima 2020) che si manifestano in tante sofferenze e povertà, materiali e spirituali, di quanti li circondano e che sono affidati alla nostra cura pastorale. Si rinnova profondamente per noi il senso della chiamata: “L'appello del Buon Pastore giunge sino a noi: Ego vocavi te nomine tuo, ho chiamato te, per nome. Bisogna rispondere - amore con amor si paga - dicendo: Ecce ego, quia vocasti me, mi hai chiamato, eccomi: sono deciso a non fare che il tempo di Quaresima passi come l'acqua sui sassi, senza lasciare traccia; mi lascerò penetrare, trasformare; mi convertirò, mi rivolgerò di nuovo al Signore, amandolo come Egli vuole essere amato" (S. Josemaría Escrivá, È Gesù che passa, n.59).


Febbraio 2023

 


Figli di Dio in Cristo

“quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: «Abbà! Padre!». Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio”. Gal 4,4-7 

La venuta del Salvatore ha come fine l’elevazione della creatura umana alla partecipazione della vita divina: l’adozione a Figli di Dio.
Nella celebrazione del Battesimo di Gesù abbiamo ascoltato le parole del Padre: «Tu sei il Figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento». Attraverso il conferimento del sacramento del Battesimo questo compiacimento del Padre è venuto a ricadere anche su ciascuno di noi incorporati a Cristo e diventati figli nel Figlio.

Il disegno della Redenzione ci si è rivelato non solo come una mera salvezza dalle conseguenze del peccato nella nostra vita naturale, quasi che la nostra strada continui nel semplice orizzonte di creature risanate, ma come la chiamata a partecipare della stessa vita di Dio: “consorti della natura divina” (I Pt) .

È una condizione esistenziale nuova, alla quale Gesù preparò i suoi, insegnando loro a rivolgersi a Dio come “Padre”: li invita a comportarsi come figli dell’Altissimo e come il Padre che è nei Cieli (cfr Lc 6,35-36) fino a dire “Siate voi, dunque, perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). Seguirà l’invito alla preghiera del “ Padre nostro…” e infine quella chiamata a condividere con Lui l’intimità con il Padre (cfr Gv 14-16).

Una realtà che è vero fondamento della nostra vita cristiana, ma che spesso è poco o debolmente presente nel vivere quotidiano: influisce poco sul nostro modo di corrispondere alla vocazione cristiana, troppo spesso vissuta più come impegno di adeguamento a dei precetti.
Se la ricordiamo è per richiamare la benevolenza di Dio sulle nostre difficoltà, ma raramente ci rendiamo conto del “compiacimento del Padre”, poche volte nutriamo la gioia di saperci figli di Dio, poche volte la nostra corrispondenza alla vocazione cristiana è animata dal desiderio grato di vivere secondo l’amore del Padre.
Anche talora, forse, la nostra partecipazione al ministero sacerdotale di Cristo ha poco presente che Gesù lo visse come figlio inviato dal Padre – e strettamente unito a Lui – per compiere il Suo disegno: la Redenzione.

In tal modo possono allora affermarsi modi di vivere il ministero, di porci verso le sue esigenze, verso le persone, gli avvenimenti, ecc. poco “ filiali”: atteggiamenti di chi è centrato più su se stesso e le sue capacità, di chi cerca consensi e sicurezze umane o, viceversa, dipende troppo dai mezzi materiali di cui dispone.

La realtà della filiazione divina, sorgente della santificazione del cristiano, per un dono di Dio fu percepita con particolare profondità da San Josemaría Escrivá che lo riconobbe come il fondamento dello spirito che Dio gli chiese di vivere e diffondere per promuovere la coscienza e la risposta alla chiamata universale alla santità.

La filiazione divina - ci ricorda -  proviene dall’identificazione con Cristo: nella sua sostanza è una partecipazione reale della relazione unica che Cristo ha con Dio Padre, che addirittura porta il cristiano a invocarlo con l’espressione Abbá, che san Paolo indica come appropriata anche per noi: “non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!».” (Rm 8, 15)
La nostra vita va sviluppata in tutte le sue manifestazioni, secondo la verità della filiazione divina: e cresce, pertanto, nella misura di una più piena identificazione con Cristo, con i suoi sentimenti, i suoi desideri, i suoi affetti filiali.

"tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria" (Rom 8,14-17).
E’ dunque l’ azione dello Spirito Santo che ci rende figli, non più schiavi, né semplici e devoti cultori o estimatori, o seguaci. Perciò è importante farsi docili alla Sua azione: "Se siamo docili allo Spirito Santo, l'immagine di Cristo verrà a formarsi sempre più nitidamente in noi, e in questo modo saremo sempre più vicini a Dio Padre. …. Se ci lasciamo guidare da questo principio di vita presente in noi, la nostra vitalità spirituale si svilupperà sempre più, e noi ci abbandoneremo nelle mani di Dio nostro Padre con la stessa spontaneità e con la stessa fiducia con cui il bambino si getta nelle braccia del padre" (S. Josemaria Escrivà, E’ Gesù che passa, n. 135) 
Se corrispondiamo all’azione dello Spirito la nostra vita spirituale e il nostro ministero di sacerdoti acquisterà sempre più i lineamenti di un figlio di Dio.

Talvolta l‘impegno spirituale personale, e anche lo svolgimento del ministero possono poggiarsi principalmente sul dovere morale di corrispondere a un impegno preso, oppure sul farsi forti delle proipre capacità per raggiungere virtù che sono il compimento di un'ambizione spirituale oppure obbiettivi pastorali significativi. Ne deriva una lotta in cui spesso ci sentiamo “soli” : e Dio, benché chiamato Padre, rimane lontano da noi!
Identificarci, invece, nei “sentimenti che furono in Cristo Gesù” fa crescere in noi sentimenti e virtù filiali che radicano – in Cristo - nell’amore filiale verso il Padre.

Le virtù filiali, nella consapevolezza dell’amore paterno di Dio, della Sua grazia, si alimentano nella “pietà filiale", espressione di una corrispondenza di amore: non cresceranno per ascesi muscolare, per atteggiamenti pelagiani, né saranno negate da impostazioni gnostiche.

"Cerca riposo nella filiazione divina- ci suggerisce S. Josemaria Escrivà - Dio è un padre pieno di tenerezza, di infinito amore. Chiamalo Padre molte volte al giorno e digli - da solo a solo, nel tuo cuore - che lo ami, che lo adori, che senti l'orgoglio - che ti riempie di forza - di essere suo figlio. Vivrai così un autentico programma di vita interiore che ha come perno quelle norme di pietà con Dio - poche, ripeto, ma costanti -, che ti permetteranno di acquistare i sentimenti e le maniere di un buon figlio" (Amici di Dio, n.150).
Nella devozione filiale, gli appuntamenti della preghiera, non si poggeranno su un mero dovere, ma saranno la risposta al richiamo paterno, saranno l‘incontro – in Cristo - di un figlio con suo Padre e la nostra preghiera si svilupperà secondo i modi di una relazione filiale, piena di semplicità. Ne nasceranno propositi sinceri e ben poggiati sulla fiducia dell’aiuto che nostro Padre Dio non mancherà di offrirci.

Lo spirito filiale, come atteggiamento profondo dell’anima, si mostrerà nei nostri pensieri, desideri e affetti. Affronteremo la realtà della nostra esistenza cristiana e del nostro ministero con fiducia e spirito positivo perché saremo sempre consapevoli che ci seguono il “ compiacimento” e l’amore del Padre e l’impegno ascetico necessario per lottare contro le tentazioni e per affermare il bene sarà nutrito sempre dalla Speranza. Si farà strada in noi sempre più la pace e la gioia, compatibili con l’esperienza della nostra e altrui debolezza, perché riposeremo sempre nell’amore e nella misericordia del Padre che sempre accoglie e perdona.
Abbandoneremo sempre di più la ricerca di precari appoggi umani – le nostre capacità, i consensi umani, la disponibilità di mezzi materiali che infondono sicurezza di successo, ecc. - per porre il fondamento di tutte le nostre azioni nel sapersi, in Cristo, figli amati e guidati da Dio nostro Padre e il nostro ministero sacerdotale sarò impregnato del desiderio di operare secondo i desideri del Padre e si svolgerà sempre, con “ morale di vittoria” , nella consapevolezza dell’azione provvidente della Sua grazia.

Gennaio 2023



"troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia" (Lc 2,12)

dall’Omelia Il trionfo di Cristo nell'umiltà,
di S. Josemaria Escrivá, pubblicata in E’ Gesù che passa. Ed. Ares 2022

Lux fulgebit hodie super nos, quia natus est nobis Dominus: oggi splenderà la luce su di noi, perché ci è nato il Signore.

Ecco il grande annuncio che commuove in questo giorno i cristiani che, per loro mezzo, viene rivolto a tutta l'umanità. Dio è in mezzo a noi. È questa la verità che appaga la nostra vita. Ogni Natale deve essere per noi un nuovo e peculiare incontro con Dio, in modo tale che la sua luce e la sua grazia entrino fino in fondo nella nostra anima. (…)

Il Figlio di Dio si è fatto carne ed è perfectus Deus, perfectus homo. In questo mistero c'è qualcosa che dovrebbe emozionare profondamente i cristiani. (…)

Iesus Christus, Deus homo: ecco i magnalia Dei, le opere meravigliose di Dio, dinanzi alle quali dobbiamo meditare e di cui dobbiamo rendere  grazie al Signore, a colui che è venuto a portare la pace in terra agli uomini di buona volontà, a tutti coloro che vogliono unire la loro volontà alla Volontà santa di Dio: non soltanto ai ricchi, né soltanto ai poveri, ma a tutti gli uomini, a tutti i fratelli. Perché tutti siamo fratelli in Gesù, tutti figli di Dio e fratelli di Cristo; e sua Madre è nostra Madre.

Sulla terra non c'è che una razza: quella dei figli di Dio. Tutti dobbiamo parlare la stessa lingua, quella che ci insegna il Padre nostro che è nei cieli, la lingua del dialogo di Gesù col Padre, la lingua che si parla col cuore e con la mente, quella stessa che usate ora nella vostra orazione. È la lingua delle anime contemplative, di coloro che sanno essere spirituali perché consapevoli della loro filiazione divina; una lingua che si esprime in mille mozioni della volontà, in tante illuminazioni radiose dell'intelligenza, negli affetti del cuore, nelle decisioni di condurre una vita retta, santa, lieta e pervasa di pace.

Dobbiamo contemplare Gesù Bambino, nostro Amore, nella culla. Dobbiamo contemplarlo consapevoli di essere di fronte a un mistero. È necessario accettare il mistero con un atto di fede; solo allora sarà possibile approfondirne il contenuto, guidati sempre dalla fede. Abbiamo bisogno, pertanto, delle disposizioni di umiltà proprie dell'anima cristiana. Non vogliate ridurre la grandezza di Dio ai nostri poveri concetti, alle nostre umane spiegazioni; cercate piuttosto di capire che, nella sua oscurità, questo mistero è luce che guida la vita degli uomini.

Noi osserviamo - scrive san Giovanni Crisostomo - che Gesù proviene da noi, dalla nostra natura umana, ed è nato da una Vergine Madre; non comprendiamo; però, come un tale prodigio possa essersi compiuto. È inutile affannarci a tentare di scoprirlo; accettiamo piuttosto umilmente quello che Dio ci ha rivelato, ed evitiamo di curiosare su ciò che Dio ci ha nascosto. Tale accettazione ci porterà a comprendere e ad amare; il mistero sarà allora un insegnamento incomparabile, più convincente di qualsiasi ragionamento umano.

 Quando parlo davanti al presepio, cerco sempre di immaginarmi Gesù nostro Signore proprio così, avvolto in fasce e adagiato sulla paglia di una mangiatoia; ma al tempo stesso cerco di vederlo, mentre è ancora bambino e non parla, come Dottore e Maestro. Ho bisogno di considerarlo in questo modo, perché devo imparare da Lui. Per imparare da Lui è necessario conoscere la sua vita; è necessario leggere il santo Vangelo e meditare le scene del Nuovo Testamento per addentrarci nel senso divino dell'esistenza terrena di Gesù.

Dobbiamo infatti riprodurre la vita di Cristo nella nostra vita. Ma ciò non è possibile se non attraverso la conoscenza di Cristo che si acquista leggendo e rileggendo la Sacra Scrittura e meditandola assiduamente nell'orazione, così come facciamo ora, davanti al presepio. Bisogna capire gli insegnamenti che Gesù ci dà fin dall'infanzia, fin da neonato, fin dal momento in cui i suoi occhi si sono aperti su questa benedetta terra degli uomini.

Gesù, che cresce e vive come uno di noi, ci rivela che l'esistenza umana, con le sue situazioni più semplici e comuni, ha un senso divino. Benché abbiamo considerato tante volte questa verità, ci deve pur sempre riempire di ammirazione la considerazione di quei trent'anni di oscurità che costituiscono la maggior parte del tempo che Gesù ha trascorso tra gli uomini suoi fratelli. Anni oscuri, ma per noi luminosi come la luce del sole. Sono, anzi, lo splendore che illumina i nostri giorni, che dà ad essi il loro autentico significato: perché altro non siamo che comuni fedeli che conducono una vita in tutto uguale a quella di tanti milioni di persone dei più diversi luoghi della terra.

Per sei lustri Gesù non fu che questo: fabri filius, il figlio dell'artigiano. Quando poi vengono i tre anni di vita pubblica e l'osanna delle folle, la gente si stupisce: chi è costui e dove ha appreso tante cose? Perché la sua vita era stata la vita comune della gente della sua terra. Egli stesso era noto come faber, filius Mariae, l'artigiano, figlio di Maria. Ed era Dio, e veniva a compiere la Redenzione del genere umano, ad attirare a sé tutte le cose.

Come per ogni altro avvenimento della sua vita, mai dovremmo contemplare quegli anni nascosti di Gesù senza sentirci coinvolti, senza coglierne il significato che più da vicino ci riguarda: sono appelli che il Signore ci rivolge per farci uscire dal nostro egoismo, dalla nostra comodità. Il Signore conosce bene i nostri limiti, l'attaccamento alla nostra personalità, le nostre ambizioni; conosce quanto ci sia difficile dimenticare noi stessi e darci agli altri. Sa che cosa sia non trovare amore e costatare che anche quelli che dicono di seguirlo lo fanno solo a metà. Ricorderete le scene drammatiche, narrate dagli Evangelisti, nelle quali vediamo gli Apostoli pieni ancora di aspirazioni temporali e di progetti solo umani. Ma Gesù li ha scelti, li tiene con sé, e affida loro la missione che Egli ha ricevuto dal Padre.

Anche noi siamo chiamati da Gesù che ci domanda, come a Giacomo e a Giovanni: Potestis bibere calicem, quem ego bibiturus sum?, siete disposti a bere il calice che io sto per bere, il calice dell'abbandono completo alla volontà del Padre? Possumus!, sì, siamo disposti, rispondono Giacomo e Giovanni. Io e voi, siamo veramente disposti a compiere in tutto la volontà di Dio nostro Padre? Abbiamo dato tutto intero il nostro cuore al Signore, o ci manteniamo attaccati a noi stessi, ai nostri interessi, ai nostri comodi, al nostro amor proprio? C'è qualcosa che non si addice alla nostra condizione di cristiani e che ci impedisce di purificarci? Ecco oggi l'occasione di rettificare.

Come prima cosa, è necessario convincerci che è Gesù a rivolgere a ciascuno di noi queste domande. È Lui a farle e non io. Io non oserei porle nemmeno a me stesso. Sto continuando la mia orazione ad alta voce, ma è dal suo intimo che ognuno di noi confessa al Signore: Gesù, che poca cosa sono, quanta viltà in tante occasioni, quanti errori in questa o in quella circostanza, in quel luogo e in quell'altro...! Ma possiamo anche aggiungere: meno male, Signore, che mi hai sorretto con la tua mano, perché mi riconosco capace di ogni infamia; tienimi stretto, non mi lasciare, trattami sempre come un bambino. Vorrei essere forte, coraggioso, coerente; ma tu aiutami come si aiuta una creatura inesperta. Conducimi per mano, Signore, e fa' che anche tua Madre sia accanto a me e mi protegga. E allora, possumus!, lo potremo, ci sentiremo capaci di prendere Te come modello.

Non è presunzione affermare: possumus! Gesù stesso ci insegna questo cammino divino e ci chiede di intraprenderlo, dal momento che Egli lo ha reso umano e accessibile alla nostra debolezza. Ecco perché si è abbassato tanto. Questo è il motivo per cui quel Signore, che in quanto Dio era uguale al Padre, si è umiliato prendendo la forma di servo; ma si è abbassato per quanto riguarda la maestà e la potenza, non per quanto riguarda la bontà e la misericordia.

La bontà di Dio ci rende agevole il cammino. Non possiamo respingere l'invito di Gesù, non possiamo dirgli di no, non possiamo renderci sordi al suo appello: non avremmo scuse, non avremmo argomenti per continuare a credere che non possiamo. Egli ci ha istruiti con il suo esempio. Pertanto vi supplico, fratelli miei: non permettete che vi sia stato mostrato invano un modello così prezioso, ma configuratevi a Lui e rinnovatevi nell'intimo della vostra anima.

    Dicembre 2022   


Il tesoro del tempo

I giorni di fine novembre segnano abitualmente lo spartiacque tra la conclusione di un anno liturgico e l’inizio di uno nuovo, con il tempo d’Avvento.
Nel cammino della Liturgia della Chiesa si dà però una continuità di riflessione: dalla rinnovata presa di coscienza della fragilità della vicenda di questo mondo e dell’avvicinarsi della venuta di Cristo glorioso, alla scoperta, piena di speranza, di una nuova venuta di Cristo nella storia – nella storia personale di ciascuno – che ci muove ad accoglierlo più profondamente nella nostra vita.
Siamo chiamati così a riflettere sul mistero del “ tempo”: uno spazio limitato – ma che non ci è dato di misurare - nel quale possiamo acquistare coscienza di ciò che siamo: da dove proveniamo e ciò per cui siamo stati fatti, per poter dare a Dio – e a noi stessi - con la nostra vita il frutto che è chiamata a dare nel disegno del Creatore.

Gli avvenimenti evocati di recente dalla Parola di Dio: guerre, eventi naturali avversi, persecuzioni … - sempre presenti, anche ai nostri giorni, ricordano a tutti la fragilità dell’esistenza terrena: ma per coloro che cercano Dio, diventano nuova luce per rapportarsi in modo più umile e grato al dono della vita, per affidarsi all’azione della grazia, per mettere sempre più il cuore nella cara nostra patria che è il Cielo: l’incontro pieno e definitivo con Dio!

Noi sacerdoti, collocati “tra la terra e il Cielo” non siamo solo ambasciatori ai nostri fedeli del messaggio della Fede sulle verità eterne, ma, come veri mediatori, siamo chiamati a testimoniare personalmente il nostro “ viver in Cristo” nella proiezione reale dei sentimenti del nostro cuore e delle nostre azioni nell’eternità.

Per questo dobbiamo prima di tutto alimentare più profondamente la nostra mente e il nostro cuore nella contemplazione del Cielo, della pienezza dell’incontro con Dio. Non dobbiamo lasciare che la consuetudine di insegnare agli altri le verità eterne – divenendo routine – ci faccia sminuire e tenerci lontani dalla “contemplazione del Cielo”.

"… che cosa sarà il Cielo che ci attende, quando tutta la bellezza e la grandezza, tutta la felicità e l'Amore infiniti di Dio si riverseranno nel povero vaso d'argilla che è la creatura umana, per saziarla eternamente, sempre con la novità di una felicità nuova? "  (S.Josemaría Escrivá, Solco n. 891
Nella contemplazione cresce il desiderio del Cielo e ci accorgiamo che riposa su di noi la libertà e la possibilità di raggiungerlo: perciò, nel trascorrere della vita quotidiana cominciamo a renderci conto del valore del tempo! Sorge allora il richiamo a spendere bene: “il talento”, la “moneta d’oro“ del tempo della ns vita!

Il tempo è il nostro tesoro, il "denaro" per comprare l'eternità (ibidem n. 882). E potremmo aggiungere - come pastori di anime – che in qualche modo è anche il “denaro per comprare” l’eternità di tanti …
Infatti, "Coloro che si occupano di affari umani dicono che il tempo è oro. - Mi sembra poco: per noi, che ci occupiamo di affari di anime, il tempo è gloria!" ( S. Josemaría Escrivá, Cammino n. 355)

Dobbiamo nutrire il desiderio di spendere bene il tempo, per dare a Dio la nostra risposta di santità sacerdotale: santificarci nel santificare gli altri, nel condurli a Dio, al Cielo!
Non possiamo scivolare in un atteggiamento soggettivistico e autoreferenziale che chiude la prospettiva del ministero nel cerchio delle nostre ambizioni, obbiettivi, attese individuali, perdendo di vista ciò per cui siamo stati chiamati : “ perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga!"
Se il ministero viene piegato alla nostra affermazione umana, allora ci facciamo in quattro per arrivare a certi obbiettivi personali ma poi, perché già appagati o, viceversa, delusi per gli insuccessi o le difficoltà incontrate, ci disintendiamo … ci lasciamo andare.

E invece si uniscono, come facce di una stessa medaglia, il cammino della personale identificazione con Cristo con lo spendersi per la salvezza e la santità degli altri. Non possiamo essere passivi: la risposta a Dio è chiamata a crescere nel tempo, ogni giorno di più; è necessario un esercizio continuo e più consapevole, della ns scelta e della ns libertà di amare. Le parabole di Gesù ce lo ricordano puntualmente: il servo fedele che attende il suo Signore …le dieci vergini chiamate a illuminare con le loro lampade…i servi a cui furono affidati i talenti. Gesù ci mostra il senso della vita e della chiamata a seguirlo nei compiti che ci fa affidato per portare frutto.

Perché ciò avvenga, dobbiamo chiederci se usiamo con frutto i mezzi della grazia: i sacramenti e la vita di preghiera; le opportunità della formazione spirituale. Quanta grazia assimiliamo nella celebrazione e dalla comunione dell’Eucaristia? E così pure dall’incontro con il perdono del Signore nel sacramento della Riconciliazione? Come sappiamo, l’efficacia della grazia dipende anche dalle nostre disposizioni: la celebrazione della Messa: ogni giorno può essere una piccola ma reale tappa del nostro darci e trasformarci in Cristo e del nostro e intercedere per la crescita dei fedeli affidati! La grazia del sacramento della Riconciliazione, ricevuto con una volontà sincera di contrizione e di conversione ci permette di dare nuovo slancio al nostro cammino. La fedeltà quotidiana alla preghiera e, in particolare, la qualità del nostro ascolto per comprendere quello che lo Spirito Santo sta cercando di dirci sono passaggi rilevanti del “ buon uso del tempo “ della nostra santificazione. Che valore diamo ai mezzi che la Chiesa ci suggerisce per la nostra santificazione?  Momenti periodici di ritiro spirituale, il corso di esercizi annuale, l’aiuto della direzione spirituale …

Usare bene de tempo vuol dire seguire “ il passo di Dio”, che lo Spirito Santo dà nella nostra anima  all’impegno della lotta interiore. Vuol dire una premura nuova e una maggiore determinazione nel cammino dell’identificazione con Cristo: nella la lotta alle tentazioni, come ci ricorda S. Josemaría, avvertiremo che “ Quando si tratta di "troncare", … l'"ultima volta" dev'essere la precedente, quella già avvenuta. (Solco 144)
Così pure, all’insorgere nella nostra coscienza della necessità di dare un passo avanti nel cammino della virtù, non rimanderemo, aspettando “condizioni migliori”. Il senso cristiano del tempo ci porta a cogliere con prontezza le mozioni dello Spirito, e mettere in atto senza remore quanto ci chiede: quell'offrire a Dio il nostro lavoro fatto bene, quel gesto di comprensione, di perdono; quell’atto di fortezza di fronte a una difficoltà, quell’atto di umiltà per tornare o accrescere la dimensione di servizio del nostro ministero., ecc.

Santificare il tempo della dedicazione quotidiana al ministero comporterà l’attenzione a tante virtù: rifuggire dalla pigrizia, dal disordine, dall’intemperanza, dall’eccessiva attenzione a noi stessi per vivere con diligenza e competenza i compiti a noi assegnati: come i servitori alle nozze di Cana, cercheremo di “riempire fino all’orlo” le giare, cioè di spenderci con generosità richiamando così quella grazia che, sola, può trasformare l’acqua del nostro impegno in vino di santificazione delle anime.
Cercheremo di percorrere il tempo, che è gloria di Dio e degli uomini suoi figli, con uno stile di vita sobrio che non si attarda nella ricerca di spazi di dispersione, in discorsi inutili, nell’inseguire piccoli capricci o la ricerca di gratificazioni della curiosità come talora ci viene offerto nell’uso dei social.

La virtù della laboriosità ci aiuterà a vivere il criterio dell’ “oggi, adesso “ perché, come suggerisce S. Josemaría Escrivá “Domani! Qualche volta è prudenza; molte volte è l'avverbio dei vinti”. (Cammino 251) Ci sono tante piccole e grandi azioni che possiamo realizzare quanto prima, senza rimandarle per comodità: una telefonata, un messaggio, dare una risposta attesa, rimettere al suo posto una cosa utilizzata, cercare di risolvere con prontezza un problema che sorge in maniera imprevista…
Avremo un programma di lavoro, ci daremo delle priorità e per cercare di rispettarle con spirito di temperanza e obbedienza alla volontà di Dio, resistendo alle urgenze false e apparenti che creano disordine, e sapendo cogliere quelle vere.

In modo particolare sentiremo che “ il tempo è breve” nell’iniziativa pastorale e missionaria: “non ci deve avanzare nemmeno un secondo di tempo: non sto esagerando. Lavoro ce n'è; il mondo è grande e si contano a milioni le anime che ancora non hanno ascoltato con chiarezza la dottrina di Cristo (…)Mi potrai dire: e perché dovrei sforzarmi? Non ti rispondo io, ma san Paolo: L'amore del Cristo ci spinge [2 Cor 5, 14]. L'intero spazio di un'esistenza è poco per dilatare le frontiere della tua carità. (S. Josemaría Escrivá, Amici di Dio, nn. 42-43)

Novembre 2022    



Contemplativi in mezzo al mondo

Il nostro cammino di cristiani - e di sacerdoti - non è un cammino dietro a delle idee, ma dietro a una persona, Gesù Cristo, anzi è un cammino “ dentro” la vita di Cristo: la grazia del Battesimo che ci incorpora a Cristo, ci guarisce e ci santifica nell’assimilarci sempre più alla vita di Cristo.
E un aspetto fondamentale della personalità di Cristo, che lo Spirito Santo cerca di far maturare in noi, è il suo rapporto di unione con il Padre, in modo che anche noi possiamo sviluppare la nostra vita quotidiana nel dialogo, nella contemplazione di Dio. Ci illuminano l’esempio di Gesù nei suoi trent’anni di vita a Nazareth, immerso nella vita famigliare, nel lavoro, nella relazioni con la gente ma immerso nel dialogo con suo Padre Dio e, con Lui, l’esempio di Maria e di Giuseppe, che hanno sviluppato una santità grande unendosi a Dio attraverso le piccole e concrete incombenze della vita quotidiana di una madre di famiglia, di un artigiano e padre di famiglia.

Una testimonianza particolare ci viene offerta dalle pagine del Vangelo che, narrando gli anni del suo ministero pubblico, ci fanno scoprire il desiderio di Gesù di raccogliersi in preghiera e di dialogare con il Padre: di buon mattino, come alla sera, dopo il grande successo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, ecc. Talora il colloquio con il Padre traboccava ad alta voce come quando, in mezzo alla gente, esclama “«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. ….”(Mt 11,25) oppure quando – prima di operare il miracolo della risurrezione di Lazzaro –, esclama: "«Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto»(Gv 11,41-2)

In noi è lo Spirito che ci muove a relazionarci con il Padre secondo lo stile di Cristo. "E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!»" (Rom 8,15).

Se tutto questo ci attrae a coltivare in Cristo il dialogo filiale con Dio in tutta la nostra esistenza quotidiana, tuttavia sembra essere ben radicata in noi la convinzione che – tranne i momenti dedicati esclusivamente alla preghiera – sia inevitabile esserne allontanati quando siamo immersi nello svolgimento degli svariati compiti del nostro ministero. Talora non ci sembra possibile intrattenere un dialogo continuo con Dio e pensiamo che sia realizzabile solo nella misura nella quale ci allontaniamo “dal mondo” e dalle sue occupazioni.

L’esperienza spirituale di San Josemaría Escrivá ci mostra invece che l’azione dello Spirito in noi non trova ostacolo nello svolgimento dei compiti ai quali Dio stesso ci ha chiamato. Possiamo dunque scoprire la reale possibilità, anzi una vera chiamata, in forza dell’azione dello Spirito, ad essere, sempre, “ contemplativi in mezzo al mondo”.

Se siamo in grazia, - ci dice San Josemaría - lo Spirito Santo è nel mezzo della nostra anima, dando carattere soprannaturale a tutte le nostre azioni. E, con lo Spirito Santo, ci sono il Padre e il Figlio: la Santissima Trinità, che è un solo Dio. Siamo un tempio della Trinità, e possiamo parlare con Dio semplicemente, senza fare stranezze, (...) Arriviamo lì, nel profondo della nostra anima, per dirgli cosa ci accade: chiedere, adorare, riparare, amare (...). Trattandolo così, con quell'intimità, diventerai un buon figlio di Dio e un suo grande amico: per strada, in piazza, … nella tua vita ordinaria.
L’azione dello Spirito Santo in noi, è capace – se noi corrispondiamo - di trasformare in vie di unione con Dio anche il lavoro, il riposo, la vita famigliare, l’ incontro con gli altri, ecc. sempre, anche nei momenti umanamente più impegnativi.

Nella tradizione teologica, infatti, il termine contemplare viene riservato per indicare un tipo di preghiera in cui l’insufficienza delle parole diventa più evidente a causa di un amore intenso e profondo che lo Spirito Santo concede e grazie al quale si raggiunge una conoscenza assai semplice di Dio.

san Gregorio – ci dice S. Tommaso - ripone l’essenza della vita contemplativa nella “carità verso Dio”, poiché dall’amore di Dio siamo infervorati a contemplarne la bellezza. E poiché dal conseguimento di ciò che si ama nasce la gioia, la vita contemplativa termina nel godimento, che risiede nella volontà; e questo a sua volta accresce l’amore”.( S. Th. II-II, q.180,a 1,c)
Comprendiamo allora come sia possibile inoltrarsi sui cammini che ci portano ad essere “contemplativi in mezzo al mondo”, nella vita ordinaria. Tutta la vita può essere – con modalità diverse – una continua contemplazione di Dio, in mezzo ai compiti quotidiani, se vissuti nella carità.

(…) Noi figli di Dio dobbiamo essere contemplativi – ci ripete S. Josemaría - persone che, in mezzo al frastuono della folla, sanno trovare il silenzio dell'anima in dialogo permanente con il Signore; e sanno guardarlo come si guarda un Padre, come si guarda un Amico, che si ama alla follia (Forgia 738).

Se ci sembra tuttavia difficile che l’impegno della mente e lo sforzo materiale che il ministero ci chiede, talora particolarmente intensi, possano permetterci di contemplare Dio, possiamo essere illuminati da questa considerazione che ci fa sempre San Tommaso D’A.: “Quando di due cose una è la ragione dell'altra, l'occupazione dell'anima in una non impedisce né diminuisce l'occupazione nell'altra. E poiché Dio è percepito dai santi come la ragione di tutto ciò che fanno o sanno, la loro occupazione nel percepire le cose sensibili, o nel contemplare o fare qualsiasi altra cosa, non impedisce loro in alcun modo la contemplazione divina, né viceversa” (S.Th., Suppl., q. 82, a. 3 ad 4).
Se cerchiamo di svolgere tutte le ns azioni, e anche i pensieri, i desideri, ecc per amore di Dio, dirigendoli pienamente a Lui, allora vedremo che è possibile contemplarlo in ogni momento.
Ovunque ci troviamo, in mezzo al rumore della strada e alle preoccupazioni … ci troveremo in una semplice contemplazione filiale, in un dialogo costante con Dio. Perché tutto – persone, cose, compiti – ci offre l'occasione e il tema di un continuo colloquio con il Signore. (S. Josemaría Escrivá, Lettera 11-III-1940, n. 15)

Se cerchiamo e amiamo Dio nel disimpegno della attività quotidiane, sull’esempio di Gesù, di Maria e di Giuseppe nella vita ordinaria di Nazareth, allora contempleremo Dio non nei momenti della preghiera, ma anche solo mentre svolgiamo i nostri compiti: anzi, riconoscendo questi compiti come un servizio diretto e una corrispondenza di amore a Lui, lo contempleremo e ci uniremo a Lui proprio “attraverso” di essi.
Ottobre 2022         

 
Ricominciare dalla santità personale

Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare quel che si è piantato. Un tempo per uccidere e un tempo per curare, un tempo per demolire e un tempo per costruire” (Qoelet 3, 1-3.)

Nel riprendere il lavoro pastorale di un nuovo anno, le parole del Qoelet ci stimolano a metterci all’opera, con nuovo entusiasmo nel servizio alla Chiesa. Siamo chiamati a vincere possibili incertezze, timori, che talora possono essere provocati dalle circostanze che ci circondano per edificare con fiducia il Regno di Dio.
Ogni volta però ci chiediamo: che vuol dire “ costruire la Chiesa", in che modo sono chiamato a farlo? Come posso farlo meglio?
Ci illuminano le parole della Scrittura: "Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori. Se il Signore non vigila sulla città, invano veglia la sentinella" (Salmo 126 (126)).
Le parole del Salmo vanno al cuore della questione: siamo coinvolti, con tutta la nostra anima e tutte le capacità umane che Dio ci ha dato, nell’opera della Redenzione che è di Dio: solo Lui può realizzarla. Da soli ci affaticheremmo invano: abbiamo la gioia di essere stati chiamati a collaborare con Lui.

L’impegno della nostra umanità: intelligenza, cuore, sensibilità, emozioni, ecc., al servizio di Cristo, talora può farci perdere la percezione viva di essere e di dipendere dall’azione della grazia e può portarci a valutare le cose in funzione dei riscontri terreni del nostro operare: l’entusiasmo umano generato dal nostro operare, i suoi frutti più tangibili, il successo umano raccolto nell’attività pastorale. Così pure, al contrario, potremmo lasciarci condizionare dalle stanchezze di fronte alle difficoltà, dalle delusioni provate davanti agli insuccessi.

Ma Cristo ci ripete: "Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla" (Gv 15,4-5).
Abbiamo bisogno di maturare, ogni volta di più, il nostro radicamento in Cristo: per vivere, per guardare, per valutare le cose, secondo il suo cuore, secondo il suo sguardo,

Diversamente possono prendere forza in noi delle derive: perdersi nell’impegno organizzativo che il lavoro pastorale comporta o nell'accumulare sempre più conoscenze umane, ecc. così pure nell’immergersi disordinatamente nelle relazioni, o infine anche nella eccessiva dedicazione alla preparazione di riti e feste liturgiche. In tal modo la vita di preghiera personale può illanguidirsi e, con essa, la realtà della nostra unione alla vite.

L’unione vitale del tralcio con la vite si manifesta nel fatto che il tralcio cresce e porta frutti di santificazione personale. Siamo realmente uniti alla vite - a Cristo - se progrediamo personalmente in questa unione: se – nell’azione della grazia e con la nostra corrispondenza – maturano in noi passi avanti nella santità.
Il seme divino della carità, che Dio ha posto nelle nostre anime, - ci ricorda S. Josemaría Escrivà - aspira a crescere, a manifestarsi in opere e a produrre frutti che in ogni momento corrispondano ai desideri del Signore” (S. Josemaría Escrivá - Omelie I, n.58).
In tal modo che la nostra vita sacerdotale si trasforma in lievito che fa fermentare tutta la massa. Per essere lievito - ci ricorda S. Josemaría Escrivá - bisogna essere santi. Il sacerdote: santificarsi e santificare. Il tuo compito, sacerdote, non è solo salvare anime, ma santificarle”. Il ministero sacerdotale di Cristo – e il nostro, in Cristo – è volto, infatti, a portare ogni uomo e ogni donna alla partecipazione della vita divina, alla santificazione.

La centralità della propria santificazione ci viene inoltre sottolineata dal cambiamento d’epoca nel quale siamo chiamati a vivere e a servire. “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri o, se ascolta i maestri, è perché sono dei testimoni. … In questo contesto si comprende l’importanza di una vita che risuona veramente del Vangelo!” S. Paolo VI AAS LXVI (1974).
Lo Spirito Santo muove con urgenza alla rigenerazione di una vita cristiana che cerchi in modo attuale la pienezza della “vita di Cristo. In tal modo, come avvenne per i primi cristiani, essa diventa lievito fecondo.

Perché si dia una unione che operi in noi la santificazione, insieme alla vita sacramentale vissuta con fede, è necessaria la nostra corrispondenza nella vita di preghiera e nella lotta interiore.

Se la santificazione è progredire nella unione con Gesù e, in Lui, con le persone divine, corrispondere alla grazia vuol dire coltivare e crescere in una relazione personale: “Il sentiero che conduce alla santità è un sentiero di orazione” (S. Josemaría Escrivá, Omelie II, 295)
La routine nelle stesse “cose di Dio” può comportare il rischio dell’abitudine e di una certa “spersonalizzazione” della relazione con Dio: ci dirigiamo a Lui guidando la preghiera del popolo di Dio, celebrando i sacramenti…, parliamo di Lui, proclamiamo e spieghiamo la Sua Parola, ma potremmo non coltivare l’intimità con Lui, che cresce solo nel dialogo personale costante della preghiera, e poi arrivare a perderla.

Per corrispondere in un cammino di santificazione è necessaria, poi, la lotta interiore: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso” (Lc 9, 23).
Ce lo ricorda anche S. Paolo: “Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch'io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù” (Fil 3,12-14).

Il cammino della santificazione è frutto dell’azione della grazia e della nostra corrispondenza che mostra in atti concreti di lotta, contro le inclinazioni negative che ci accompagnano, la scelta della nostra fedeltà e del nostro voler procedere nell’amore a Dio.

Noi cristiani siamo vincolati da un impegno d'amore liberamente accettato quando abbiamo accolto la chiamata della grazia divina; siamo vincolati da un obbligo che ci spinge a lottare tenacemente, perché sappiamo bene di essere fragili, al pari degli altri uomini. Ma sappiamo anche che, adoperando i mezzi, saremo il sale, la luce, il lievito del mondo: saremo la consolazione di Dio” ( S. Josemaría Escrivà – Omelie I, n.7.

Settembre 2022      


«Venite in disparte e riposatevi un po'»  

Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare.” (Mc 6,30-31).
Gesù, che qualche giorno prima aveva inviato i discepoli con precise indicazioni di sobrietà e di distacco dagli agi materiali - “ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche"  - mostra di avere a cuore il riposo dei discepoli, dopo le fatiche accumulate nel ministero loro affidato. Il Verbo di Dio, fatto uomo, che visse con pienezza tutte le circostanze della vita terrena per riordinarle alla gloria di Dio, insegna ai suoi l’opportunità di godere di un po’ di riposo.

Non c’è situazione che fa parte del giusto e necessario svolgersi della vita umana, che non possa essere vissuta a lode di Dio e per avvicinarsi di più a Lui in Cristo. Anzi, in questa prospettiva, tutto ciò che rettamente fa parte della vita dell’uomo assume il suo più grande valore nell'essere riconosciuto e realizzato come compimento della volontà di Dio: la gioia e il dolore, il lavoro e il sano svago, la fatica e il riposo.
Questa considerazione ci aiuta anche a comprendere come il tempo estivo, con le sue peculiarità specifiche per il ministero del sacerdote, è sempre un tempo propizio di santità!

Queste settimane, infatti, il ministero pastorale già accompagnato dalla percezione della stanchezza accumulata durante l’anno, si caratterizza spesso per il clima molto caldo in cui si svolge, che lo rende più faticoso. Allo stesso tempo, il peculiare ritmo di vita della gente – che va via in vacanza; oppure si dedica di più a programmi di riposo e di svago –porta in queste settimane una sospensione delle consuete attività formative. Per questo anche per il presbitero è umano e necessario trovare occasioni, benché brevi, per l’opportuno ristoro e una fruttuosa ricarica fisica e spirituale.

In questo contesto nel quale il ministero pastorale tenda a sgranarsi tra momenti più intensi: la celebrazione dell’Eucaristia domenicale, le iniziative con i giovani (grest, campi, ecc,), le feste religiose - in molte regioni più numerose nel tempo estivo - e momenti nei quali si creano spazi anche ampi di inattività che bisogna imparare a utilizzare bene.

La stanchezza e l’esigenza di riposare, unita alla minore presenza della abituali opportunità pastorali, potrebbero presentarsi come un invito a cercare delle pause nel proprio essere sacerdotale e nel cammino di santificazione che lo accompagna. Si potrebbe cedere nel ritmo della vita di preghiera, nella centralità della celebrazione eucaristica quotidiana, e così si intiepidisce lo zelo, la carità pastorale, talora troppo identificata con lo svolgimento di ”attività organizzate” ora meno presenti. L’esito potrebbe essere dare spazio eccessivo alla propria comodità, ai propri desideri di benessere e di evasione; talvolta, a piccoli capricci insoddisfatti.

Discernere queste situazioni secondo la vita e lo spirito di Cristo può invece portare a scoprire questo tempo come una tappa del nostro cammino di santità sacerdotale che sa trarre dalle sue peculiarità, nuove occasioni di incontro con Dio: opportune letture, spazi di preghiera più sereni e ampi, riflessione sul lavoro pastorale affidato per migliorarlo secondo le luci dello Spirito Santo. Il tempo estivo, con quanto lo caratterizza, va scoperto e seguito, dunque, come nuova e speciale occasione per cercare l’unione con Dio, un tempo di santità!

L’umanità di Cristo ci apre strada: Gesù si affaticava percorrendo in lungo e in largo i villaggi della Palestina e cercava l’opportuno ristoro: lo troviamo assetato presso il pozzo di Sicar, che chiede da bere alla Samaritana e il suo zelo gli fa trovare in questa occasione un servizio a quella donna. Talvolta approfittava anche di tempi ristretti per riposare un po’ sulla barca come nella traversata del lago. Inoltre, Gesù viveva spazi di amicizia e convivialità (Lazzaro e le sue sorelle, il pranzo con gli amici di Levi, a casa di Simone il fariseo, o di Zaccheo); non mancò di condividere e santificare la genuina allegria di una festa di nozze a Cana dove fece il primo miracolo, perché questa allegria non venisse meno. Tutto questo si intrecciava con i suoi insegnamenti alle folle, le guarigioni, i colloqui personali e, sempre, con l’assidua preghiera al Padre, ciò che alimentava continuamente il suo spirito ed era fonte di discernimento e di zelo.

Dalla vita di Cristo traspare, nella varietà di queste situazioni, una profonda “unità di vita”: in tutto si manifestava il suo desiderio di compiere la volontà del Padre, di dargli gloria e di spendersi per il servizio delle anime. Secondo questo stile di Gesù, S. Paolo, potrà dire: sia dunque che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio (1 Cor 10,31)
Non ci sono “ situazioni sante” - a cui si addice coltivare la relazione con Dio e la virtù – e, invece, “situazioni profane”, come le esigenze ordinarie della vita quotidiana, da vivere magari in una prospettiva puramente pragmatica, materialistica, seguendo le logiche mondane.

Figli miei,- ci dice San Josemaría - lì dove sono gli uomini vostri fratelli, lì dove sono le vostre aspirazioni, il vostro lavoro, lì dove si riversa il vostro amore, quello è il posto del vostro quotidiano incontro con Cristo. È in mezzo alle cose più materiali della terra che ci dobbiamo santificare, servendo Dio e tutti gli uomini. (…)Sappiatelo bene: c'è un qualcosa di santo, di divino, nascosto nelle situazioni più comuni, qualcosa che tocca a ognuno di voi scoprire (S. Josemaría Escrivá, Colloqui n.113).

Dobbiamo imparare a riconoscere in ogni cosa, in ogni avvenimento, la presenza e l’azione di Dio: il quid divinum, quel richiamo divino, che in essi si manifesta, e che attende una nostra risposta di amore, di unione con Lui, orientando tutto il nostro agire al servizio di Dio e alla Sua Gloria.

È necessario superare quella “doppia vita” che a volte si genera in noi: Non ci può essere una doppia vita, non possiamo essere come degli schizofrenici, se vogliamo essere cristiani: vi è una sola vita, fatta di carne e di spirito, ed è questa che dev'essere - nell'anima e nel corpo - santa e piena di Dio: questo Dio invisibile lo troviamo nelle cose più visibili e materiali.
Non vi è altra strada, figli miei: o sappiamo trovare il Signore nella nostra vita ordinaria, o non lo troveremo mai. Per questo vi posso dire che la nostra epoca ha bisogno di restituire alla materia e alle situazioni che sembrano più comuni, il loro nobile senso originario, metterle al servizio del Regno di Dio, spiritualizzarle, facendone mezzo e occasione del nostro incontro continuo con Gesù Cristo
.(ib)
Dobbiamo consumare quella distanza che spesso c’è tra “cose o momenti santi”: celebrazione eucaristica o di altri sacramenti, momenti intensi di preghiera, ecc. - nei quali sentiamo la presenza di Dio e cerchiamo di rispettarla e onorarla - e “faccende o momenti profani” nei quali talora ci dimentichiamo di Dio, ci muoviamo secondo una prospettiva puramente mondana.

Nella vita del sacerdote, come in quella di Cristo, c’è la stanchezza e l’esigenza di riposare, la convivialità, il gusto dell’amicizia, ecc. così come c’è la preghiera, la vita sacramentale, la passione e la responsabilità di predicare la Parola, ecc. : ma tutto sarà vissuto in “unità di vita”, cercando in ogni cosa, come Cristo, la volontà e la glorificazione del Padre: “Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera" (Gv 4,34). È importante, perciò, fare sempre più nostri i “sentimenti che furono in Cristo Gesù” per vivere sempre secondo la sua “carità pastorale”.

"Il principio interiore, la virtù che anima e guida la vita spirituale del presbitero in quanto configurato a Cristo Capo e Pastore è la carità pastorale, partecipazione della stessa carità pastorale di Gesù Cristo: dono gratuito dello Spirito Santo, e nello stesso tempo compito e appello alla risposta libera e responsabile del presbitero.
La carità pastorale è quella virtù con la quale noi imitiamo Cristo nella sua donazione di sé e nel suo servizio. (…) La carità pastorale determina il nostro modo di pensare e di agire, il nostro modo di rapportarci alla gente. (…) Questa stessa carità pastorale costituisce il principio interiore e dinamico capace di unificare le molteplici e diverse attività del sacerdote. Grazie ad essa può trovare risposta l'essenziale e permanente esigenza dell'unità tra la vita interiore e le tante azioni e responsabilità del ministero, esigenza quanto mai urgente in un contesto socio-culturale ed ecclesiale fortemente segnato dalla complessità, dalla frammentarietà e dalla dispersività (...)
« L'unità di vita — ci ricorda il Concilio — può essere raggiunta dai presbiteri seguendo nello svolgimento del loro ministero l'esempio di Cristo Signore, il cui cibo era il compimento della volontà di colui che lo aveva inviato a realizzare la sua opera... »"
(Pdv. n.23).

Perché questo avvenga dobbiamo saper coltivare l’amicizia con Gesù, il rapporto personale con Lui e, insieme con Lui, riposare nella filiazione al Padre: da questa continua conversazione con Cristo verrà l’ordine del cuore che darà ad ogni “passaggio” di questo tempo - impegno pastorale e riposo; fatiche e momenti di condivisione, di distensione, di divertimento, di cura della propria salute e di zelo sempre vivo per avvicinare la gente a Cristo - il suo posto giusto e lo renderà un appuntamento di santificazione.
In tal modo non smettiamo mai di essere sacerdoti, mediatori in Cristo Gesù: e lo stare in Cristo, con Dio, ci proietterà sempre verso gli altri, con gioia e iniziativa, con il cuore aperto, disponibile per portare loro le cose di Dio, per avvicinarli al Signore.

In tal modo, tutto ciò che nella vita di noi sacerdoti è sanamente umano, vissuto secondo i sentimenti di Cristo, continua ad essere “ luogo” nel quale ogni uomo e ogni donna possano incontrare Dio.

Luglio 2022       

                                                           

Sacerdoti secondo il cuore di Cristo

dall’Omelia Sacerdote per l'eternità di S. Josemaria Escrivá, pubblicata in La Chiesa nostra Madre. Ed. Ares 2000

Il sacerdozio porta a servire Dio in uno stato che non è, in sé stesso, migliore o peggiore di altri: è diverso. Tuttavia, la vocazione sacerdotale si presenta rivestita di una dignità e di una grandezza tali che null'altro sulla terra può superare. Santa Caterina da Siena pone sulle labbra di Gesù queste parole: «Io non volevo che la riverenzia verso di loro diminuisse... perché ogni riverenzia che si fa a loro, non si fa a loro, ma a me, per la virtù del Sangue che io l'ho dato a ministrare. Unde, se non fusse questo, tanta riverenzia avreste a loro quanta agli altri uomini del mondo, e non più... E così non debbono essere offesi, però che, offendendo loro, offendono me e non loro. E già l'ho vetato, e detto che i miei Cristi non voglio che sieno toccati per le loro mani» [SANTA CATERINA DA SIENA, Il Dialogo della divina Provvidenza, cap. 116; cfr Sal 104, 15].

Taluni si affannano a cercare quella che chiamano l'identità del sacerdote. Quanto sono chiare le parole della santa di Siena! Qual è l'identità del sacerdote? Quella di Cristo. Tutti noi cristiani possiamo e dobbiamo essere non soltanto alter Christus, ma anche ipse Christus: un altro Cristo; lo stesso Cristo! Ma il sacerdote lo è in modo immediato, in forma sacramentale.

39. «Per realizzare un'opera così grande» — quella della Redenzione — «Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche. È presente nel Sacrificio della Messa sia nella persona del ministro, "Egli che, offertosi una volta sulla croce, offre ancora sé stesso per il ministero dei sacerdoti", sia soprattutto sotto le specie eucaristiche» [CONCILIO VATICANO II, cost. Sacrosanctum Concilium, 7]. Per mezzo del Sacramento dell'Ordine, il sacerdote è reso effettivamente idoneo a prestare a Gesù nostro Signore la voce, le mani e tutto il suo essere; è Gesù che, nella santa Messa, con le parole della Consacrazione, cambia la sostanza del pane e del vino nel suo Corpo, nella sua Anima, nel suo Sangue e nella sua Divinità.

È questo il fondamento dell'incomparabile dignità del sacerdote. È una grandezza ricevuta in prestito, compatibile con la mia pochezza. Prego Dio nostro Signore che conceda a tutti noi sacerdoti la grazia di compiere santamente le cose sante, di rispecchiare con la nostra stessa vita lo splendore delle grandezze del Signore. «Noi che celebriamo i misteri della Passione del Signore, dobbiamo imitare quello che facciamo. E allora l'ostia occuperà il nostro posto al cospetto di Dio, perché noi stessi ci facciamo ostia» [SAN GREGORIO MAGNO, Dialoghi, 4, 59].

Qualora vi imbattiate in un sacerdote che per il suo contegno non sembra vivere secondo il Vangelo — non sta a voi giudicarlo, lo giudica Dio — sappiate che se celebra validamente la santa Messa, con l'intenzione di consacrare, il Signore non si rifiuta di scendere nelle sue mani, ancorché siano indegne. È possibile una donazione maggiore, un annientamento più grande? Più che a Betlemme, più che sul Calvario. Perché? Perché Gesù Cristo ha il cuore angosciato dall'ansia di redenzione, perché non vuole che qualcuno possa dire di non essere stato chiamato, perché Egli stesso va incontro a coloro che non lo cercano.

Egli è Amore! E non c'è altra spiegazione. Quanto sono insufficienti le parole per parlare dell'Amore di Cristo! Egli si adatta a tutto, accetta tutto, si espone a tutto — ai sacrilegi, alle bestemmie, alla fredda indifferenza di tanti — pur di offrire, anche a un solo uomo, l'occasione di scoprire i palpiti del suo Cuore ardente, nel suo petto ferito.

L'identità del sacerdote è questa: essere strumento immediato e quotidiano della grazia salvifica che Cristo ha meritato per noi. Quando si comprende questo principio, quando lo si medita nell'attivo silenzio della preghiera, come possiamo considerare il sacerdozio una rinuncia? È un guadagno incalcolabile. Maria Santissima, nostra Madre, la più santa delle creature — più di Lei solo Dio — trasse una sola volta Gesù al mondo; i sacerdoti lo portano su questa terra, al nostro corpo, alla nostra anima, tutti i giorni: e Gesù viene, per nutrirci, per vivificarci, per essere fin da ora pegno della vita futura.

40. Il sacerdote non è da più del laico, né come uomo né come fedele. È pertanto molto opportuno che si eserciti nell'umiltà più profonda per capire che è specialmente in lui che si compiono appieno le parole di san Paolo: «Che cosa hai che non lo abbia ricevuto?» [1 Cor 4, 7]. Quello che ha ricevuto... è Dio!, è la potestà di celebrare la Sacra Eucaristia — la santa Messa, fine principale dell'ordinazione sacerdotale — di perdonare i peccati, di amministrare altri Sacramenti e di predicare autorevolmente la parola di Dio dirigendo i fedeli nelle cose che riguardano il Regno dei Cieli.

41. «Il sacerdozio dei presbiteri, pur presupponendo i Sacramenti dell'iniziazione cristiana, viene conferito da quel particolare Sacramento per il quale i presbiteri, in virtù dell'unzione dello Spirito Santo, sono marcati da uno speciale carattere che li configura a Cristo Sacerdote, in modo da poter agire in nome di Cristo, Capo della Chiesa» [Presbyterorum ordinis, 2]. La Chiesa è così: non per capriccio di uomini, ma per espressa volontà di Gesù Cristo che ne è il Fondatore. «Il sacrificio e il sacerdozio sono, per ordinamento divino, talmente collegati, da coesistere insieme in ogni legge», l'antica e la nuova Alleanza. «Avendo dunque la Chiesa cattolica ricevuto nel Nuovo Testamento, per istituzione del Signore, il sacrificio visibile dell'Eucaristia, si deve anche confessare che c'è in essa un nuovo sacerdozio, visibile ed esterno, nel quale fu trasferito l'antico» [CONCILIO DI TRENTO, doctr. De sacramento ordinis, cap. I; DS 1764].

In chi riceve l'Ordine sacro, il sacerdozio ministeriale viene ad aggiungersi al sacerdozio comune di tutti i fedeli. Pertanto, mentre sarebbe errato sostenere che un sacerdote è più cristiano di un fedele qualsiasi, è lecito affermare invece che è più sacerdote: egli appartiene, come ogni altro cristiano, al popolo sacerdotale che Cristo ha redento, ed è, in più, contrassegnato con il carattere del sacerdozio ministeriale, che «differisce essenzialmente, e non solo di grado» [Lumen gentium, 10], dal sacerdozio comune dei fedeli.

42. Non capisco la preoccupazione che hanno taluni sacerdoti di confondersi con gli altri fedeli, dimenticando o trascurando la loro specifica missione nella Chiesa, quella per cui sono stati ordinati. Costoro ritengono che i cristiani desiderino vedere nel sacerdote un uomo come gli altri. Ma si ingannano. I fedeli vogliono certamente ammirare nel sacerdote le virtù proprie di ogni cristiano e peraltro di ogni persona onesta: la comprensione, la giustizia, la dedizione al lavoro — lavoro sacerdotale, in questo caso —, la carità, l'educazione, la delicatezza nel tratto con gli altri.

Ma, accanto a ciò, pretendono che risalti chiaramente il carattere sacerdotale: si aspettano dal sacerdote che preghi, che non rifiuti l'amministrazione dei Sacramenti, che sia disposto ad accogliere tutti senza porsi alla testa o militare in fazioni umane, quali che siano [Cfr Presbyterorum ordinis, 6]; che metta amore e devozione nella celebrazione della santa Messa, segga in confessionale, consoli i malati e gli afflitti; che con la catechesi dia dottrina ai bambini e agli adulti, che predichi la parola di Dio e non l'una o l'altra delle scienze umane — ancorché le conosca perfettamente — perché quella non sarebbe la scienza che salva e che conduce alla vita eterna; che abbia dono di consiglio e carità verso i bisognosi.

43. In breve, si chiede al sacerdote che impari a non porre ostacolo alla presenza di Cristo in lui, specialmente nei momenti in cui realizza il Sacrificio del Corpo e del Sangue del Signore e quando, nella Confessione sacramentale auricolare e segreta, perdona i peccati nel nome di Dio. L'amministrazione di questi due Sacramenti è così capitale nella missione del sacerdote, che tutto il resto deve far perno su di essa. Gli altri compiti sacerdotali — la predicazione e l'istruzione religiosa — non avrebbero fondamento se non fossero orientati a insegnare come trattare Cristo, come incontrarlo nel tribunale amoroso della Penitenza e della rinnovazione incruenta del Sacrificio del Calvario, la santa Messa.

Giugno 2022    

Con Maria, contemplativi
nella vita ordinaria

Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, … Entrati in città, salirono nella stanza al piano superiore, dove erano soliti riunirsi ... Tutti questi erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui.( Atti 1,12-14)
Asceso Gesù al Cielo, i discepoli si riunirono in preghiera nell’attesa che venisse inviato ad essi il Consolatore da Lui promesso. Spicca la presenza di Maria in mezzo a loro: ma Gesù dalla croce l’aveva consegnata come madre a Giovanni e, con lui, a tutti i suoi discepoli e Maria comincia a vivere il suo compito di madre, sostenendoli nell’attesa di preghiera chiesta da Gesù. Lei era colei che aveva concepito Gesù “per opera dello Spirito Santo” e che aveva dunque acquistato una grande familiarità e docilità alla Sua azione.

Fin dai primi momenti della gestazione di Gesù, lo Spirito Santo la guidò nella prova che dovette costituire quel fatto prodigioso, nel rapporto con Giuseppe, come pure nell’attesa premurosa del bambino e nelle circostanze inattese e difficili nelle quali, secondo i disegni divini, venne alla luce. Nell’azione dello Spirito Maria poté penetrare nel significato della venuta alla grotta dei pastori e, più tardi, dei magi e ascoltò con profonda disponibilità alla volontà di Dio la profezia di Simeone. Accolse così con prontezza e fiducia la decisione di Giuseppe che, avvertito dall’angelo, le comunicò che dovevano mettersi rapidamente in viaggio verso l’Egitto per sfuggire alla persecuzione di Erode.

L’ascolto e la docilità allo Spirito Santo dovettero guidarla poi a comprendere il significato di quella risposta di Gesù dodicenne nel ritrovarlo, dopo tre giorni, nel Tempio. Così pure l’intimità con lo Spirito Santo la guidò a scoprire il senso dei tanti giorni e anni della vita di Gesù a Nazaret, prima di rivelarsi come il Messia atteso: un’esistenza così comune che sembrava nascondere il progetto divino. E, infine, il passaggio doloroso della sua passione e morte sulla croce, dove ella seppe accompagnarlo con piena dedizione materna.

La vita di Maria, con le sue circostanze concrete, vengono illuminate da quella osservazione di Luca che “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.” (Lc 2,19) “Maria – ci dice Benedetto XVI - ha vissuto pienamente la sua esistenza, i suoi doveri quotidiani, la sua missione di madre, ma ha saputo mantenere in sé uno spazio interiore per riflettere sulla parola e sulla volontà di Dio, su quanto avveniva in Lei, sui misteri della vita del suo Figlio”. Udienza 17 agosto 2011

In quei giorni di attesa dal Paraclito, Maria dovette aiutare i discepoli e le sante donne a preparare questa venuta, e insegnare ad accogliere, ad ascoltare e a farsi docili alla sua azione, per crescere per mezzo di Lui nella “vita nuova” di Cristo Risorto, e per trasformare pienamente la loro vita in una missione: portarne nel cuore di ogni uomo il messaggio della salvezza.

Alla conclusione del mese mariano e in preparazione alla celebrazione della Pentecoste, possiamo farci guidare anche noi da Maria e imparare da Lei a metterci in rapporto con lo Spirito Santo che fin dal momento del nostro battesimo opera già nella nostra vita: diventare, come lei più capaci di avvertirne la presenza, di ascoltarlo e di farci guidare da Lui per essere, come Maria, più “contemplativi” nel bel mezzo degli impegni del nostro ministero ordinario.
Spesso infatti accade che l’immersione nelle quotidiane incombenze del nostro ministero, ci porti, benché occupati nelle “cose di Dio”, ad avere il nostro cuore lontano da Lui. Si creano così in noi dei compartimenti stagni tra i momenti nei quali ci dedichiamo alla celebrazione dell’Eucaristia, alla Liturgia delle Ore, alla meditazione, ecc.. . e gli impegni quotidiani del nostro ministero.
Non possiamo pensare che lo sviluppo della contemplazione cristiana possa darsi solo in chi è chiamato ad allontanarsi dal mondo e dalle sue vicende quotidiane. E che non sia possibile essere “contemplativi” mentre serviamo il Signore nelle fitte relazioni con le persone e nel farci carico di tante faccende che costituiscono il servizio che Dio ci chiede con il nostro ministero pastorale.
Ce lo rivela l’esempio di Maria: è Lei che ci aiuta a scoprire la possibilità e la chiamata ad essere sempre, sotto la guida e l’impulso dello Spirito Santo, “contemplativi”:

«Maria custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19). Così l’evangelista Luca ritrae la Madre del Signore …. Tutto ciò che le capita intorno finisce con l’avere un riflesso nel profondo del suo cuore: i giorni pieni di gioia, come i momenti più bui, quando anche lei fatica a comprendere per quali strade debba passare la Redenzione. (Papa Francesco – Udienza 18-11-2020)
In Maria, infatti, l’unione profondissima con Dio che accompagnava tutta la sua vita non trova ostacolo nel compimento del suo lavoro quotidiano, della sua vita ordinaria, anzi si manifesta attraverso di esso. Quei compiti che svolgeva per servire il Figlio di Dio fatto uomo nel suo grembo diventavano vie di unione con Dio, vie di santità.
Sappiatelo bene – ci indica San Josemaría - : c'è "un qualcosa" di santo, di divino, nascosto nelle situazioni più comuni, qualcosa che tocca a ognuno di voi scoprire. (S. Josemaría Escrivá, Colloqui, n. 114)

Con Maria, guidati dallo Spirito Santo che è in noi, possiamo imparare a riconoscere sempre, in tutte le cose, la presenza e l’azione di Dio e tenere viva la relazione di amore con Lui,  riconoscere ciò che ci dona o che ci chiede: e questo diventa per noi – come lo fu per Maria – il cammino della nostra santificazione, della nostra conformazione a Cristo nel ministero quotidiano.
Perché è l'amore la chiave per intendere la vita di Maria. Un amore vissuto sino in fondo, sino alla dimenticanza completa di sé, nell'appagamento di essere là, dove Dio vuole, a compiere con diligenza appassionata la sua volontà. È per questo che ogni gesto di Maria, anche il più piccolo, non è mai banale, ma pieno di significato. Maria, nostra Madre, è per noi esempio e cammino. Dobbiamo cercare di imitarla nelle circostanze concrete in cui Dio ci chiede di vivere (S. Josemaría Escrivá, E’ Gesù che passa, n.148)
Maggio 2022

Cristo vive!

(dall’Omelia “Cristo presente nei cristiani” di S. Josemaría Escrivà )

Cristo vive. Questa è la grande verità che riempie di contenuto la nostra fede. Gesù, che morì sulla Croce, è risorto, ha trionfato sulla morte, sul potere delle tenebre, sul dolore, sull'angoscia. Non abbiate paura: con questa esortazione un angelo salutò le donne che andavano al sepolcro. Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso: è risorto, non è qui. Haec est dies quam fecit Dominus, exultemus et laetemur in ea; questo è il giorno che fece il Signore, esultiamo.
Il tempo pasquale è pieno di gioia, di una gioia che non è limitata a quest'epoca dell'anno liturgico, ma è presente in ogni momento nell'animo del cristiano. Poiché Cristo vive: Cristo non è un uomo del passato, che visse un tempo e poi se ne andò lasciandoci un ricordo e un esempio meravigliosi. No: Cristo vive. Gesù è l'Emmanuele, Dio con noi. La sua Risurrezione ci rivela che Dio non abbandona mai i suoi. Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Questa era la promessa, e l'ha mantenuta. Dio si delizia ancora di stare tra i figli degli uomini.

Cristo vive nella sua Chiesa: Ora io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò. Questo era il disegno di Dio: Gesù, morendo sulla Croce, ci dava lo Spirito di Verità e di Vita. Cristo resta nella sua Chiesa: nei suoi Sacramenti, nella sua liturgia, nella sua predicazione, in tutta la sua attività.
In modo speciale Cristo continua a essere presente fra di noi nel dono quotidiano dell'Eucaristia. Per questo la Messa è centro e radice della vita cristiana. In ogni Messa c'è sempre il Cristo totale, Capo e Corpo. Per Ipsum, et cum Ipso, et in Ipso. Perché Cristo è il Cammino, il Mediatore: in Lui troviamo tutto; fuori di Lui, la nostra vita resta vuota. In Gesù Cristo, e istruiti da Lui, osiamo dire - audemus dicere - Pater Noster, Padre nostro. Osiamo chiamare Padre il Signore dei Cieli e della terra.
La presenza di Gesù vivente nell'Ostia è la garanzia, la radice e il culmine della sua presenza nel mondo.

Cristo vive nel cristiano. La fede ci dice che l'uomo, in stato di grazia, è divinizzato. Noi non siamo angeli; siamo uomini e donne, esseri di carne e ossa, con un cuore e delle passioni, con tristezze e gioie. Ma la divinizzazione trasforma tutto l'uomo, come un anticipo della risurrezione gloriosa: Cristo è davvero risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo.
La vita di Cristo è vita nostra, secondo quanto Egli promise ai suoi Apostoli il giorno dell'ultima cena: Se uno mi ama osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Perciò il cristiano deve vivere imitando la vita di Cristo, facendo propri i sentimenti di Cristo, in modo da poter esclamare con san Paolo: Non vivo ego, vivit vero in me Christus, non sono io che vivo, è Cristo che vive in me.

Gesù fondamento della vita cristiana
Ho voluto ricordare, se pur brevemente, alcuni aspetti della vita attuale di Cristo - Iesus Christus heri et hodie; ipse et in saecula - perché costituiscono il fondamento di tutta la vita cristiana. Se ci guardiamo intorno e consideriamo la storia dell'umanità possiamo costatare dei progressi. La scienza ha dato all'uomo una maggiore coscienza del suo potere. La tecnica domina la natura più che nelle epoche passate, e permette che l'umanità aspiri a un più alto livello di cultura, di benessere, di unità.
Alcuni riterranno di dover ridimensionare questo quadro, ricordando che gli uomini continuano a soffrire ingiustizie e guerre, addirittura peggiori di quelle del passato. Non hanno torto. Ma aldilà di queste considerazioni, preferisco ricordare che, nell'ordine religioso, l'uomo continua a essere uomo e Dio continua a essere Dio. In questo campo l'apice del progresso è stato già raggiunto: è Cristo, alfa e omega, principio e fine.

Nella vita spirituale non c'è una nuova epoca da raggiungere. Tutto è già dato in Cristo, che è morto ed è risorto, e vive e permane in eterno. Bisogna però unirsi a Lui mediante la fede, lasciando che la sua vita si manifesti in noi a tal punto che di ogni cristiano si possa dire non solo che è alter Christus, un altro Cristo, ma ipse Christus, lo stesso Cristo.

Instaurare omnia in Christo, questo è il motto di san Paolo per i cristiani di Efeso; informare tutto il mondo con lo spirito di Gesù, mettere Cristo nelle viscere di ogni realtà: Si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutto a me. Cristo, mediante la sua Incarnazione, la sua vita di lavoro a Nazaret, la sua predicazione e i suoi miracoli nelle contrade della Giudea e della Galilea, la sua morte in Croce, la sua Risurrezione, è il centro della creazione, è il Primogenito e il Signore di ogni creatura.

La nostra missione di cristiani è di proclamare la regalità di Cristo, annunciandola con le nostre parole e le nostre opere. Il Signore vuole che i suoi fedeli raggiungano ogni angolo della terra. Ne chiama alcuni nel deserto, lontano dalle preoccupazioni della società umana, per ricordare agli altri, con la loro testimonianza, che Dio esiste. Ad altri affida il ministero sacerdotale. Ma i più li vuole in mezzo al mondo, nelle occupazioni terrene. Pertanto, questi cristiani devono portare Cristo in tutti gli ambienti in cui gli uomini agiscono: nelle fabbriche, nei laboratori, nei campi, nelle botteghe degli artigiani, nelle strade delle grandi città e nei sentieri di montagna.  continua
Aprile 2022   

Il salutare tempo della Quaresima

La Quaresima è tra le più antiche consuetudini della Chiesa, da sempre memoria attiva e contemplativa dei quaranta giorni di Gesù nel deserto della Giudea, lungo tempo di preghiera e sacrificio.
Le antiche comunità cristiane trovavano stimolo nella vita stessa della Chiesa per dare a queste settimane dei connotati particolari e forti.
I catecumeni vedevano la conclusione del loro cammino avvicinandosi al battesimo nella Pasqua, quasi sempre dopo una preparazione di anni. Erano incoraggiati a una preghiera più intensa, accompagnati dall’intera comunità. Così si rivolgeva a loro san Cirillo di Gerusalemme: «Il Signore eliminerà le tue iniquità. Il Signore laverà le vostre brutture; spargerà su di voi acqua pura e sarete purificati da ogni peccato. Gli angeli vi fanno corona esultanti e presto canteranno: Chi è costei che ascende immacolata, appoggiata al suo diletto? Costei è l’anima già schiava e ora libera di chiamare fratello adottivo il suo Signore, che accogliendone il proposito sincero le dice: Ecco, ora sei bella, quanto bella! […] Così egli esclama alludendo ai frutti di una confessione fatta con buona coscienza […]. Voglia il cielo che tutti manteniate vivo il ricordo di queste parole e ne traiate frutto traducendole in opere sante per presentarvi irreprensibili al mistico Sposo e ottenere dal Padre il perdono dei peccati». Per l’intera famiglia cristiana era in qualche modo il momento di ribadire la propria adesione a Cristo. Di questo ci è rimasta traccia nel rinnovamento delle promesse battesimali durante la Veglia pasquale.
L’altro elemento forte era la penitenza. Quei primi secoli conobbero la categoria – un vero ordine ecclesiale – dei penitenti, ovvero quelli che venivano sottoposti a una penitenza pubblica per gravi peccati pubblici, prima di essere ammessi di nuovo nella comunità ecclesiale. Durante tale periodo non potevano rivestire cariche pubbliche, sposarsi o ricevere il sacramento dell’Eucaristia, e spesso sostavano all’ingresso delle chiese a chiedere preghiera. Al termine del periodo di penitenza la riammissione era celebrata dal vescovo col rito dell’imposizione delle mani, quasi sempre nella Pasqua. In questo modo tutta la comunità viveva una dimensione di penitenza durante la Quaresima. La traccia che ci è rimasta è il precetto pasquale, benché come obbligo fu imposto solo dal Concilio Lateranense IV nel 1215.

Tutte le diocesi, durante la Quaresima, offrono ai fedeli abbondanti aiuti per una preghiera più intensa, per un ringiovanimento della fede, per un pentimento più profondo e sincero che porti al sacramento della Riconciliazione. Noi sacerdoti siamo chiamati a prestare questo servizio, secondo le tradizioni di ogni luogo e con la nostra iniziativa: dagli incontri di catechesi, a quelli di preghiera, alle celebrazioni penitenziali, e dando un’ampia disponibilità per le accogliere le confessioni.

La spiritualità del sacerdote non è disgiunta dal suo ministero. E perciò proprio da questi impegni quaresimali noi otteniamo la linfa per il nostro stesso cammino interiore in vista della Pasqua. D’altra parte è vero anche il contrario: più intensifichiamo la nostra preghiera, la meditazione, più miglioriamo la nostra stessa confessione, più è meglio ci faremo disponibili e renderemo un servizio efficace ai fedeli a noi affidati.

La Quaresima è quindi per noi tempo per avanzare nel cammino della preghiera e, anche, di verificare quanto e come preghiamo. Recentemente papa Francesco ci diceva: «Chiediamoci, magari dopo tanti anni di ministero, che cos’è oggi per noi, che cos’è oggi per me, pregare. Forse la forza dell’abitudine e una certa ritualità ci hanno portati a credere che la preghiera non trasformi l’uomo e la storia. Invece pregare è trasformare la realtà. È una missione attiva, un’intercessione continua. Non è distanza dal mondo, ma cambiamento del mondo. Pregare è portare il palpito della cronaca a Dio perché il suo sguardo si spalanchi sulla storia. Cos’è per noi pregare? E ci farà bene oggi domandarci se la preghiera ci immerge in questa trasformazione; se getta una luce nuova sulle persone e trasfigura le situazioni. Perché se la preghiera è viva, “scardina dentro”, ravviva il fuoco della missione, riaccende la gioia, provoca continuamente a lasciarci inquietare dal grido sofferente del mondo» (Omelia, 12 marzo 2022).

Insieme alla preghiera, il tempo della Quaresima ci invita ad offrire sacrifici. Possiamo scoprire in particolare la mortificazione che è possibile offrire nelle cose ordinarie: nell’impegno richiesto dal ministero, nelle fatiche e nelle contrarietà che talvolta incontriamo. San Josemaría insegnò costantemente che «il miglior spirito di sacrificio è la perseveranza nel lavoro intrapreso: sia quando lo si fa con slancio, sia quando lo si fa con riluttanza» (Forgia, 409) e che la carità offre le migliori e più salutari occasioni per mortificarsi: «Fomenta il tuo spirito di mortificazione nei dettagli di carità, col desiderio di rendere amabile a tutti il cammino di santità in mezzo al mondo: un sorriso può essere, a volte, la migliore manifestazione dello spirito di penitenza» (Forgia 149).

Marzo 2022     

 

Tempo di rigenerazione

Ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo - scrive Papa Francesco in Evangelii gaudium - spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale”.

Nel “cambiamento d’epoca” che stiamo vivendo vengono meno i riferimenti antropologici che finora, in gran parte della società occidentale, facilitavano la comunicazione del messaggio cristiano. Questo rappresenta per il presbitero una sfida che non si restringe a una mera ricerca di nuove strategie pastorali: diventa una chiamata a “tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del vangelo”, da lì – ci dice papa Francesco - "spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale” (E.G., 11).

A questa profonda trasformazione in atto nella nostra società, si è aggiunta la grande prova della pandemia che ha messo in luce la limitatezza di un vivere cristiano affidato prevalentemente alle buone consuetudini apprese in un contesto familiare e sociale ancora illuminato dai valori cristiani.

Per tornare alla fonte, il presbitero è chiamato a riscoprire il senso di quella chiamata: “perché stessero con Lui”, che non è mera collocazione in una cornice di appartenenza religiosa e ministeriale, ma relazione sempre viva e rigenerante con il Maestro.

È necessario stare in sua compagnia, tornare continuamente a contemplarlo e a parlarsi: “Posti dinanzi a Lui con il cuore aperto, lasciando che Lui ci contempli, riconosciamo questo sguardo d’amore che scoprì Natanaele il giorno in cui Gesù si fece presente e gli disse: «Io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi» (Gv 1,48). Che dolce è stare davanti a un crocifisso, o in ginocchio davanti al Santissimo, e semplicemente essere davanti ai suoi occhi! Quanto bene ci fa lasciare che Egli torni a toccare la nostra esistenza e ci lanci a comunicare la sua nuova vita! Dunque, ciò che succede è che, in definitiva, «quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo» (1 Gv 1,3). (E.G., 264)

Non si tratta solo di pensare a Gesù, (...) - ci dice san Josemaría - dobbiamo …. seguire Cristo standogli accanto come la Madonna, come i primi dodici, come le sante donne, come le moltitudini che si affollavano intorno a Lui. Se ci comportiamo così, se non frapponiamo ostacoli, le parole di Cristo penetreranno nel fondo della nostra anima e ci trasformeranno (È Gesù che passa, n.107).

Tempi di orazione, di dialogo intimo e profondo, tempi preziosi e irrinunciabili nella nostra vita al seguito di Cristo. A partire da essi può svilupparsi una disposizione attiva dello spirito contemplativo, che – secondo l’insegnamento di San Josemaría Escrivá - non trova ostacolo nello svolgimento dei compiti del ministero quotidiano, che sono il cammino concreto della missione affidata da Cristo stesso, ma piuttosto uno stimolo. È possibile così “intrattenere – nel corso della giornata – una conversazione costante con il Signore, che si alimenti anche delle circostanze in cui si svolge la tua attività” (Forgia, n. 745).

In continua compagnia con Gesù, ci accorgiamo che “Cristo è il «Vangelo eterno» (Ap 14,6), ed è «lo stesso ieri e oggi e per sempre» (Eb 13,8), che “la sua ricchezza e la sua bellezza sono inesauribili. Egli è sempre giovane e fonte costante di novità"(E.G., 11).

Si manifesta, ogni volta di nuovo, che “l’opera è prima di tutto sua, al di là di quanto possiamo scoprire e intendere. Gesù è «il primo e il più grande evangelizzatore». In qualunque forma di evangelizzazione il primato è sempre di Dio, che ha voluto chiamarci a collaborare con Lui e stimolarci con la forza del suo Spirito …. In tutta la vita della Chiesa si deve sempre manifestare che l’iniziativa è di Dio, che «è lui che ha amato noi» per primo (1 Gv 4,10) e che «è Dio solo che fa crescere» (1 Cor 3,7). Questa convinzione ci permette di conservare la gioia in mezzo a un compito tanto esigente e sfidante che prende la nostra vita per intero. Ci chiede tutto, ma nello stesso tempo ci offre tutto" (ib.,12).

Et in meditatione mea exardescit ignis (Salmo 39). Nell’imminenza della Quaresima, tempo di conversione e di rigenerazione, come frutto della fede, della speranza e dell’amore di Dio, al primo posto ci attende il cammino dell’incontro personale con Cristo nella preghiera.

         Febbraio 2022


Amare e promuovere l'unità nella Chiesa

"Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato" (Gv 17, 20-21). Sta per concludersi la settimana di preghiera per l’Unità dei cristiani: tutti siamo stati chiamati a unirci, a “metterci dentro”, a questa preghiera che Gesù elevò al Padre nel congedarsi dai suoi prima della passione.
Gesù pregò perché l’aiuto divino sostenesse la debolezza umana dei suoi e di quanti avrebbero creduto nel suo nome, di fronte alle spinte del disordine che c’è nel cuore umano fino a che non si compia pienamente in esso la Redenzione.

Perciò: “Il desiderio di ristabilire l'unione di tutti i cristiani è un dono di Cristo e un appello dello Spirito. Esso riguarda tutta la Chiesa e si attua con la conversione del cuore, la preghiera, la reciproca conoscenza fraterna, il dialogo teologico” (CCCC 866).

Sospinti dallo Spirito ci uniamo alla preghiera di Cristo per contribuire misteriosamente a chiedere al Padre la grazia dell’unità dei credenti, con il superamento di ostacoli e divisioni che nei secoli hanno segnato la vita della Chiesa. In questa preghiera lo Spirito suscita l’esigenza di maturare nella nostra vita personale un maggiore e più efficace amore all’unità che, mentre è riscontro di autenticità della nostra richiesta, contribuisce a rafforzare l’unità della Chiesa intorno a noi.

l’unità non è soltanto una prerogativa della Chiesa Cattolica; è un dovere, una legge, un impegno. Cioè l’unità della Chiesa dev’essere ricevuta e riconosciuta da tutti e da ciascun membro della Chiesa, e da tutti e da ciascuno deve essere promossa, amata, difesa. Non basta definirsi cattolici: è necessario essere effettivamente uniti. I figli fedeli della Chiesa devono essere i costruttori dell’unità concreta della sua compagine sociale (Paolo VI, Ud.31-III-1965).

Promuovere l’unità è frutto dell'azione dello Spirito Santo, ma anche dell’impegno personale per superare le barriere ed eliminare gli ostacoli, corrispondendo ad un'esplicita Volontà di Dio.
Abbiamo tutti l'obbligo urgente di alimentare quel senso di solidarietà, amicizia, comprensione reciproca, rispetto del patrimonio comune di dottrina e costumi, obbedienza e univocità nella fede“(Paolo VI, ibidem)

Tutto questo si nutre della ricerca personale dell’unione con Cristo, la vite dalla quale traggono alimento i tralci. «Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9). Gesù lega questa richiesta all’immagine della vite e dei tralci, l’ultima che ci offre nei Vangeli. Il Signore stesso è la vite, la vite «vera» (v. 1), che non tradisce le attese, ma resta fedele nell’amore e non viene mai meno, nonostante i nostri peccati e le nostre divisioni. In questa vite che è Lui, tutti noi battezzati siamo innestati come tralci: significa che possiamo crescere e portare frutto solo se uniti a Gesù (Papa Francesco, Omelia II Vespri Conversione di S. Paolo - 25 gennaio 2021)

Non impariamo mai abbastanza da questa immagine della vite che Gesù ha voluto lasciarci: ci parla del mistero della nostra partecipazione alla vita di Cristo e ci mostra che lo sviluppo di ogni dimensione della nostra vita di cristiani chiede di rafforzare la nostra unione con Lui.

"Pensando all’albero della vite, potremmo immaginare l’unità costituita da tre anelli concentrici, come quelli di un tronco. Il primo cerchio, quello più interno, è il rimanere in Gesù. Da qui parte il cammino di ciascuno verso l’unità. Abbiamo bisogno della preghiera come dell’acqua per vivere. La preghiera personale, lo stare con Gesù, l’adorazione, è l’essenziale del rimanere in Lui. È la via per mettere nel cuore del Signore tutto quello che popola il nostro cuore, speranze e paure, gioie e dolori. Ma soprattutto, centrati in Gesù nella preghiera, sperimentiamo il suo amore …. nella misura in cui rimaniamo in Dio ci avviciniamo agli altri … La preghiera non può che portare all’amore, altrimenti è fatuo ritualismo. Non è infatti possibile incontrare Gesù senza il suo Corpo, composto di molte membra, tante quanti sono i battezzati (Papa Francesco, ibidem)

La corrente della grazia che scaturisce dall'unione personale con Dio, mentre si dirige ai nostri fratelli separati, passa prima di tutto nella relazione con quanti condividono la fede cattolica e circondano più da vicino la nostra vita per spingerci a promuovere con loro l'unità nella Chiesa: per noi sacerdoti prima di tutto l'unità con il Papa e con il proprio vescovo, l'unità con i nostri fratelli del presbiterio e con i fedeli che ci sono affidati. 
Confrontarci sinceramente con quest'orizzonte di vita quotidiano può sembrarci talora difficile e arduo: ma è lì che la grazia vuole operare prima di tutto la nostra conversione per renderci veri promotori di unità.

Constatiamo … che amare i fratelli non è facile, perché appaiono subito i loro difetti e le loro mancanze, e ritornano alla mente le ferite del passato” (Papa Francesco - ibidem). L’urto con un carattere, un modo di fare, opinioni, ecc. diversi dai nostri e che feriscono la nostra sensibilità potrebbe allontanarci dalla comunione che siamo chiamati a vivere in Cristo. Possono nascere giudizi negativi e talora mormorazioni che ci portano fuori della carità fraterna e generano divisioni e antagonismi: allora il possibile errore altrui trova poca comprensione e genera distanza invece dell’invito a prestare un aiuto fraterno. A partire da questo può farsi strada una visione parziale e soggettiva della realtà ecclesiale che stigmatizza e si pone in collisione con chi non la pensa come noi.

La ricerca della vera unità, nella verità e nella carità, sa riconoscere il grande valore della cattolicità della Chiesa come meravigliosa convergenza di unità e varietà, che rifugge dalla voglia di uniformità che spesso desidera conformare gli altri a sé.

"Ti stupivi perché approvavo la mancanza di “uniformità” nell’apostolato in cui lavori. E ti ho detto: Unità e varietà. — Dovete essere diversi come diversi sono i santi nel cielo, ognuno dei quali ha le sue proprie note personali e specialissime. E, anche, dovete assomigliare gli uni agli altri come i santi, che non sarebbero santi se ognuno di loro non si fosse identificato con Cristo" (San Josemaría, Cammino, 947).

Promuovere la vera unità per la quale Cristo ha pregato, richiede la conversione del cuore. "«Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto» (Gv 15,2). Il Padre taglia e pota. Perché? Perché per amare abbiamo bisogno di essere spogliati di quanto ci porta fuori strada e ci fa ricurvare su noi stessi, impedendoci di portare frutto. Chiediamo dunque al Padre di recidere da noi i pregiudizi sugli altri e gli attaccamenti mondani che impediscono l’unità piena con tutti i suoi figli. Così purificati nell’amore, sapremo mettere in secondo piano gli intralci terreni e gli ostacoli di un tempo, che oggi ci distraggono dal Vangelo … Egli ci porta ad amare non solo chi ci vuole bene e la pensa come noi, ma tutti, come Gesù ci ha insegnato. Ci rende capaci di perdonare i nemici e i torti subiti. Ci spinge ad essere attivi e creativi nell’amore. Ci ricorda che il prossimo non è solo chi condivide i nostri valori e le nostre idee, ma che noi siamo chiamati a farci prossimi di tutti, buoni Samaritani di un’umanità vulnerabile, povera e sofferente – oggi tanto sofferente –, che giace per le strade del mondo e che Dio desidera risollevare con compassione" (Papa Francesco, Omelia II Vespri Conversione di S. Paolo - 25 gennaio 2021).
È la vita di Cristo in noi, l’azione dello Spirito, che ci guida ad amare e a promuovere intorno a noi l’unità della Chiesa.

Espressione fondamentale di essa sta nell’unione con il Papa. "Contribuiamo a rendere più evidente agli occhi di tutti questa apostolicità, manifestando con squisita fedeltà l’unione al Papa, che è unione a Pietro. L’amore al Romano Pontefice deve essere in noi vibrante e appassionato, perché in lui vediamo Cristo" (San Josemaría, La Chiesa Nostra Madre, n.30).

Chiediamo che questo tempo di preghiera che abbiamo vissuto sia un ulteriore passo verso l’unità di tutti i battezzati che vivono ancora separati dalla Chiesa, ma anche un passo di crescita nel nostro amore efficace all’unità della Chiesa che ce ne renda promotori nella vita quotidiana.
Gennaio 2022